C’è stato un periodo, in Italia, nemmeno troppo lontano, diciamo qualche anno fa, quando tutti erano federalisti.
Il federalismo in Italia è un’idea lontana, che affonda nel Risorgimento, nel dibattito Costituente, nella nascita delle Regioni. Eppure è un concetto che in Italia non ha mai avuto successo.

Il federalismo, spesso declinato anche in maniera piuttosto bizzarro, lo ha poi a un certo punto riportato in auge la prima Lega Nord. In mezzo a un nugolo di idee razziste, retrograde o semplicemente strampalate, la Lega riuscì piano piano a far entrare nel parlamento italiano l’idea che i soldi pagati in tasse sul territorio dovessero restare, il più possibile sul territorio, alimentando cioè il meno possibile il bilancio dello Stato, più o meno quello che avviene per le Regioni a statuto speciale.
Quando poi la Lega arrivò al governo del paese lo pose come condizione fondante l’alleanza a Berlusconi. Che del federalismo non era un fan, ma la cosa non gli faceva perdere voti.
Il federalismo comincia però presto a far breccia anche nel centrosinistra, a tal punto che quando nascerà il Partito Democratico si scrive, nell’articolo 2 dello Statuto, che il Pd è un “partito federale”, qualunque questa cosa volesse dire.
Il centrosinistra, sapendo di esprimere il proprio meglio nelle amministrazioni locali, a fronte di una proposta politica nazionale non sempre chiarissima, apprezzò il senso dell’idea. Il potere di controllo dell’opinione pubblica — tutti convenivano, in quei giorni — è maggiore se i centri di spesa sono più vicini, sul loro territorio. Che diventa una delle parole totem della politica italiana: territorio
E così arriva addirittura a riformare il titolo quinto della costituzione, affermando un principio che, sul momento, parve una delle più grosse conquiste di civiltà istituzionale del paese dal dopoguerra. Si ribaltava il meccanismo: prima le Regioni avevano certe competenze e del resto si occupava lo Stato. Con la riforma del titolo quinto si davano allo Stato certe competenze e del resto si occupavano le Regioni. La mediazione al ribasso fu la definizione di tutta una serie di materie di “legislazione concorrente”, che negli anni sono servite solamente a creare casini, ma questo sarebbe un altro discorso.
L’idea era affermata: se alcune Regioni, inizialmente, avrebbero sofferto di più, il federalismo avrebbe innescato un circuito virtuoso: un elettorato più vicino, più coinvolto e più consapevole avrebbe aggiustato tutto.
Nel frattempo i presidenti di Regione, soprattutto delle Regioni più importanti, divennero dei protagonisti del dibattito politico. E se prima quelli che ricoprivano questa carica erano considerati nel dibattito politico-mediatico insignificanti amministratori locali, poi si comincia a chiamarli addirittura Governatori, per scimmiottare il federalismo americano e sentirsi così (federalisticamente) fighi. Con la visibilità, però, aumentava anche il loro potere e il potere delle Regioni.
La Lega provò a spingere oltre il federalismo con l’approvazione di una riforma costituzionale. Siccome la parola federalismo era talmente unanimemente condivisa e di moda, almeno all’apparenza, i leghisti si inventarono il termine devolution. Quella riforma della Costituzione, che insieme al centralismo smantellava di fatto pure il parlamentarismo e qualche altro pezzo di Stato, fu, grazie a dio, bocciata dal referendum.
I governi di Berlusconi e quelli di centrosinistra che si sono alternati in vent’anni non hanno da questo punto di vista cambiato rotta sulla questione
Poi è arrivato il governo Monti.
Il governo Monti incarnava plasticamente tutto il milieu culturale che il federalismo non lo aveva mai digerito, ma che fino a quel punto non erano attrezzati per contrastarlo: i grand commis, l’alta burocrazia, i docenti che arrotondano lautamente i loro stipendi con le consulenze ai ministeri, le banche e il mondo della finanza, tutto l’universo dei diplomatici, i sindacati dei dipendenti pubblici. E, non ultimo, un certo modo di pensare “meridionalista”, che si sforzava di tenere il progressismo con uno statalismo ai limiti dell’assistenzialismo. E che aveva un suo degnissimo rappresentante in chi Monti l’aveva mandato al Governo: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nel frattempo (e qui mi limitò a segnalare la temporalità e non entro nel merito della causalità) fiorirono tutta una serie di inchieste che fecero sembrare i consigli regionali l’unica fonte di spreco del paese. All’improvviso oltre mezzo secolo di sperperi pubblici, fondi segreti, cattedrali nel deserto, privatizzazioni degli utili e pubblicizzazione delle perdite, sembravano bazzecole rispetto a un consigliere che si faceva rimborsare una cena a base di aragoste dalla Regione.
Le cronache portarono alla ribalta dei personaggi improbabili e grotteschi, che gestendo pacchetti di migliaia e migliaia di preferenze, entravano in consiglio regionale e da lì gestivano indisturbati un piccolo regno di malaffare. Residuati del peggio della prima repubblica avevano approfittato in maniera bieca del principio federalista. Ma erano Capri espiatori perfetti, in tempo di crisi economica e politica, per seppellire, si spera per sempre, tutto questo cazzo di federalismo.
C’è da dire che i due governi successivi, quello di Enrico Letta e di Matteo Renzi, non hanno avuto la minima intenzione di provare a invertire la rotta. Quando sei a Roma l’ebbrezza neocentralista è piacevole come il Ponentino.
Ma più che nelle politiche amministrative è interessante notare come nel dibattito politico il tema federalista si sia volatilizzato come se non fosse mai esistito. A cominciare dalla Lega Nord che dalla mattina alla sera cambia radicalmente la propria piattaforma: da oggi in poi si parla di immigrati, perché di dare più soldi da gestire ai territori è un tema che non interessa più niente a nessuno.
Ma anche nel Pd il federalismo è sparito dai radar. E quei ‘Governatori’, un tempo orgogliosi rappresentanti del buon governo del centrosinistra, sono diventati dei personaggi di cui quasi ci si vergogna e meno si fanno vedere in giro e meglio è.
A Berlusconi e alla sinistra radicale il tema non era mai interessato granché, ci si erano accodati per convenienza.
E il Movimento 5 Stelle, che piomba all’improvviso nella politica italiana, sul tema sembra non avere un’opinione, come di una cosa che appartiene al passato, quando ancora non era nato nessuno.
Quale migliore occasione di una riforma costituzionale su cui il dibattito sarà tutto concentrato su altri temi (bipolarismo, Senato, legge elettorale, costi, governabilità) per seppellire per sempre questa stagione federalista?
Uno degli effetti principali della riforma della Costituzione promossa da Matteo Renzi, se verrà approvata, sarà proprio questo. Lo Stato conterà sempre di più, i territori conteranno sempre meno. Che è una scelta legittima, per carità.
Ma arrivarci dopo esserci dimenticati che solo qualche anno fa eravamo tutti federalisti non è mica un bel modo, secondo me.