26 luglio 2016

Pubblicità e giornalismo. Forse è arrivato il momento di cominciare a dirci la verità

Ha fatto un po’ di scalpore, soprattutto fra Bologna e l’Emilia-Romagna, la notizia anticipata dal Fatto quotidiano e ripresa dalle altre testate poi, secondo cui i consiglieri del Movimento 5 Stelle avevano ottenuto gli atti relativi alle spese sostenute dall’Apt dell’Emilia-Romagna per “ospitare” i giornalisti italiani.

Si tratta di alcune decine di migliaia di euro messe a budget dall’ente che si occupa di promuovere una delle destinazioni turistiche più importanti d’Europa per cercare di ottenere buona stampa: inviati, direttori di testata, critici gastronomici e giornalisti vari hanno trascorso un po’ di tempo fra Rimini e la riviera a spese dell’Apt. E spesso hanno scritto o parlato di quello che hanno visto. Oppure no, visto che fra quelli che hanno beneficiato della proverbiale ospitalità romagnola, ci sono importanti firme o direttori di telegiornali che in genere si occupano di tutte altre cose.
Lo “scandalo” politico, sono convinto, durerà qualche ora. L’Apt ha speso dei soldi (ok, dei soldi pubblici) per ragioni promozionali. Quella promozione, a conti fatti, pranzo più pranzo meno, è tornata indietro con gli interessi: non esiste destinazione turistica in Italia che abbia una rappresentazione mediatica che sia nemmeno lontanamente paragonabile a quella della Riviera romagnola. Questo significa che si è trattato di un investimento industriale non solo corretto, ma anche vantaggioso. Soldi spesi bene, insomma, che hanno portato e diffuso sul territorio una ricchezza infinitamente maggiore di quella che è stata impegnata.
Il problema, semmai, è nostro, di noi giornalisti. Fino a che punto è lecito un comportamento simile? Si può accettare che l’oggetto del nostro lavoro sia quello che ci paga le spese (anziché l’editore, come dovrebbe essere in un mondo normale)? Scriveremo mai qualcosa di male di chi ci ha pagato un paio di notti in un hotel a 5 stelle per fare un servizio?
La risposta non è così semplice come — un po’ populisticamente — si potrebbe pensare.
Al netto di alcuni casi più clamorosi (che pure nella nostra categoria non sono pochi) la stragrande maggioranza dei giornalisti che ha beneficiato della sempre proverbiale ospitalità romagnola è fatta di persone che stava effettivamente lavorando, per il proprio giornale, per la propria tv, per un sito web o qualsiasi altra pubblicazione. In un groviglio di committenze nel quale è spesso difficile orientarsi, anzi dentro il quale rischiamo di venire tutti stritolati.
Funziona più o meno così: le testate (e questo vale per tv, giornali di carta, siti web, settimanali, mensili, radio, insomma, tutto) hanno sempre più fame di contenuti, ma sono, in linea di massima, sempre messi peggio come finanze. Si tagliano le trasferte, si tagliano le collaborazioni, si tagliano i rimborsi e gli eventi di cui si vuol dare a tutti i costi una copertura ci si fanno raccontare.
A meno che chi vuole che si parli di lui paghi.
Se paga si mandano troupe televisive che produrranno servizi per tg e programmi di approfondimento, inviati che scriveranno e si assicurerà una copertura ampia e, più o meno implicitamente, benevola.
In un settore come il turismo questa cosa è abbastanza evidente e lo è più o meno da sempre. Ma per le aziende editoriali, alla costante ricerca di fonti di entrate visto che i lettori non leggono più e se leggono si sono convinti (perché li abbiamo convinti noi) che sia un loro diritto farlo gratis, ecco che i contenuti sponsorizzati, la verticalizzazione estrema, il native advertising, insomma quella roba lì, sono diventati non una gallina dalle uova d’oro, ma quantomeno un valido e semplice sistema per tamponare, hic et nunc, le falle dei bilanci. E il giornalista, che è un dipendente di quell’azienda editoriale, volente o nolente si presta con il ricatto morale di assicurare un futuro all’azienda che gli paga lo stipendio. Ricatto morale moltiplicato per mille quando a prestarsi è un precario, il cui futuro dipende spesso dagli umori ballerini di un editore.
I siti d’informazione sono invasi dai contenuti sponsorizzati. Spesso non è nemmeno chiara (se non ad un occhio attentissimo) la distinzione fra un contenuto giornalistico vero, costruito con logiche e dinamiche che mettono al primo posto l’interesse del lettore a essere informato e un contenuto a pagamento. Perché si ha un po’ vergogna nel dirlo con chiarezza. Soprattutto quando in ballo ci sono interessi un po’ più grossi della sempre facile da celebrare, nonché proverbiale, ospitalità romagnola.
Nelle redazioni italiane, sul tema, si fa da anni un po’ finta di niente. “La cosa non fa male a nessuno”, “l’impegno per farla è minimo”, “questo ci consente di continuare a fare il nostro lavoro”.
Ma siamo sicuri?
Una soluzione a questo tema è ovviamente complicata, anche se un buon modo per cominciare sarebbe quello di mettere sempre ben in chiaro quando quando qualcuno ha commissionato quello che si spaccia come un reportage o un approfondimento.
Ma dovremo cominciare a porci seriamente il problema. Perché ne va del futuro del giornalismo, dell’igiene dell’informazione e, in fin dei conti, della qualità della democrazia.