25 aprile 2014

Il 25 aprile è festa nazionale, ma non in tv

25 aprile, sono le nove e un quarto.

Su tutti i canali tv, generalisti, specialisti, del digitale terrestre, della tv satellitare, non ce n'è uno, dico uno, che abbia impostato la sua programmazione tenendo conto che oggi è il 25 aprile.

Non ce n'è uno, neanche a pagare, che faccia vedere una trasmissione, un approfondimento, un documentario, un film, un cartone animato un qualsiasi straccio di programma, non dico che parli di Resistenza, ma neanche che dia il senso che oggi in Italia, che oggi per gli italiani è festa nazionale.

E questo, al di là di come la si pensi, è un problema culturale gigantesco.

04 aprile 2014

Contro il selfie

Non mi ricordo chi ha detto (nel caso non lo avesse detto nessuno lo dico io adesso) che quando si scrive bisognerebbe usare le parole come se si stessero usando per la prima volta. Farlo è difficilissimo. Il luogo comune, l'espressione abusata, la parola furba, sono sempre lì ad aspettarci, pronti ad aiutarci, ad offrirci una scorciatoia come un diavolino tentatore, quando siamo in difficoltà. Ma bisogna saper resistere.

Ora: io non ho niente, ma proprio niente niente, contro chi si fa le foto da solo. Singolarmente o in compagnia, nudo o vestito, a casa sua o in giro per il mondo. Va benissimo, anzi è divertente. Gli smartphone ci danno questa meravigliosa opportunità di inquadrare noi stessi mentre ci fotografiamo, perché non sfruttarla? Bellissimo.

Fatto sta che da qualche mese a questa parte, direi più o meno da quando qualche recondita e indefinita autorità deputata allo scopo ha deciso che la parola dell'anno 2013 era SELFIE, ovvero la foto fatta da soli, con lo smartphone, abbiamo cominciato ad usarla senza sosta.

Ad usarla così, per il solo gusto di usarla. Chi usava il proprio telefonino per farsi una foto diventava automaticamente una cosa di cui si doveva parlare: sui media se famoso, sui social se nostro amico, ovunque. Bastava poter usare quella parola che in pochi mesi si è logorata come è successo a pochissime altre parole nella storia delle parole che si sono logorate. E ad usarla spesso anche a sproposito: ho visto spesso foto che ritraevano qualcuno, ma palesemente fatte da altre persone, essere definite con quella stramaledettissima espressione, solo per l'urgenza insopprimibile di poterla usare, per sentirsi parte della comunità che la usava.

Ovviamente passerà anche questa, ce ne faremo una ragione e troveremo un'altra parola da bruciare in pochi mesi.

Ma visto che le parole vanno usate come se si stessero usando per la prima volta, oggi, almeno per un po' di tempo, quella parola lì non è più utilizzabile. Da nessuno, in nessun caso.

Peraltro in italiano da decenni esiste un sinonimo: autoscatto.

Ma prima che la maledetta assurgesse agli onori delle mode lessicali, dite la verità, quante volte in tutto avete usato o sentito dire o letto nella vostra vita la parole autoscatto, rispetto a - diomiperdoni - selfie?

03 aprile 2014

Ma voi lavorereste gratis?

La presidente della Provincia di Bologna Beatrice Draghetti oggi è triste come lo sono tutti i suoi colleghi.

La Camera ha approvato il decreto Delrio, quello per intendersi che non abolisce le Province, ma le trasforma in enti di secondo livello. Ovvero che salva la dimensione territoriale che, per come è fatta l'Italia (la sua storia è tutta fondata sul rapporto fra le città e il suo contado) è l'ambito territoriale più concreto che c'è, ma ne elimina la dimensione politica rendendo questo nuovo ente uno strumento nelle mani dei sindaci per organizzare dei servizi che richiedono una dimensione territoriale un po' più grande di uno o più Comuni.

Qui, dell'approvazione di questa legge, siamo parecchio felici, anche perché sul tema poteva nascere un gigantesco casino.

Tutto bene, ma c'è un però.

Per salvare questa legge da un'imboscata parlamentare al Senato, è stato inserito un emendamento che ha un suo senso: gli attuali presidenti delle Province (molti di loro sarebbero "scaduti" a maggio) rimarranno in carica fino al 31 dicembre: una sorta di commissariamento dolce che ha il comprensibile compito di gestire la transizione.

Con una postilla, ultimo dispetto che chi ha scritto la legge ha voluto fare a questo ente che, spesso a ragione,  sebbene con qualche esagerazione, è stato considerato la causa di tutti i mali: il presidente-commissario dovrà lavorare gratis per sette mesi. Zero indennità.

La presidente della Provincia di Bologna Beatrice Draghetti, giustamente, si è risentita: ma come si può pretendere che una persona che ha preso un aspettativa (se dipendente) o sacrificato la propria attività se libero professionista, possa svolgere gratuitamente per sette mesi un lavoro che peraltro è privo di onori e carico di beghe nella gestione di una transizione che semplicissima non sarà?

Mi immagino già le obiezioni: soldi per le Province ne sono già stati spesi anche troppi, si facciano bastare quelli che hanno già preso.

Ma la domanda è: voi lavorereste gratis?

Perché considerando che l'amministratore locale è un lavoro impegnativo, che richiede un mucchio di tempo, il continuo taglio delle indennità a me è sempre sembrata una cosa profondamente ingiusta. Non ingiusta per i "poverini", ingiusta per la collettività.

(Il fatto che ci sia un mucchio di gente che non se li merita non è un obiezione valida - per rispondere al grillino che è in me - perché dobbiamo dare teoricamente per scontato che chi assume democraticamente una carica pubblica se lo meriti o comunque abbia il consenso necessario per farlo).

Di questo passo (anzi per molti versi è già così) fare l'amministratore pubblico, specialmente in una realtà non grande, come un Comune o una Provincia non sarà più conveniente. Io vorrei che chi mi amministra fosse bravo, non povero.

Siccome le bollette le dobbiamo pagare tutti e siccome ognuno è tenuto a farsi legittimamente i propri conti, una carica di amministratore pubblico (pro tempore) è una cosa a cui le migliori professionalità non aspirano più, perché non più vantaggioso (se fatto con onestà, obviously).

Fra pagare bene chi si occupa di politica pretendendo in cambio la massima trasparenza ed efficienza e pagare poco sentendosi poi liberi di dire "tanto sono tutti uguali, tutti fanno schifo", io ho sempre saputo da che parte stare. 

01 aprile 2014

Il momento esatto in cui ci siamo arresi

Un giorno, forse, capiremo qual è stato il momento esatto in cui ci siamo arresi.

Quando abbiamo, cioè, deciso che pretendere "disciplina ed onore" (articolo 54 della Costituzione) ai nostri rappresentanti era fatica sprecata. In quel preciso istante abbiamo, tutti insieme, deciso che era più saggio screditarli a prescindere, far loro dei piccoli dispettucci, togliere qualche spicciolo, segare le gambe a qualche seggiola.

Tutte le volte che si dà una botta alle istituzioni l'opinione pubblica esulta.

La riforma della seconda parte della Costituzione è un passo auspicato da decenni. Avere due camere che fanno esattamente lo stesso lavoro e che, soprattutto, votano entrambe la fiducia al governo, è un meccanismo che non risponde più alle esigenze dell'Italia. Questo però non toglie che le modifiche alla Costituzione vadano fatte con grandissima cura. Perché la Costituzione non contiene solo le regole con le quali funziona il paese, ma contiene anche un programma di governo condiviso, un obiettivo al quale tendere tutti insieme.

Che senso ha avere un Senato dove chi vi siede non ha un'indennità, deve sottrarre tempo ad impegni amministrativi e non conta praticamente niente?

Siamo sicuri che il principio migliore a cui ispirare il governo del territorio sia quello di avere il minor numero possibile di persone che se ne occupano?

Il fatto che alcuni consiglieri regionali abbiano combinato cose indecorose e che il principio fosse sostenuto dalla Lega Nord, può bastare per imprimere allo Stato una svolta neo-centralistica, buttando completamente l'idea del federalismo, sul quale qualche anno fa c'era un consenso vasto e generalizzato per avvicinare la spesa al territorio e responsabilizzare i governi locali?

Diceva Piero Calamandrei che le costituzioni sono anche delle polemiche, "negli articoli delle costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito, è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime".

Nella formulazione della Costituzione entrata in vigore nel 1948 c'è una fortissima polemica contro il fascismo. Nella riforma presentata dal governo c'è una polemica altrettanto forte contro quello che è successo negli ultimi anni, contro le ruberie, contro il malaffare, contro le malversazioni, il malcostume e lo spreco di denaro pubblico. Dei quali però siamo tutti, in quota parte, colpevoli: nell'aver cioè allentato al nostro dovere di pretendere "onore e disciplina", confermando o revocando ai nostri rappresentanti un consenso informato. Una polemica contro noi stessi, a guardar bene. Una polemica contro un comportamento, non contro una forma di governo.

Diceva sempre Piero Calamandrei che nella Costituzione sentiva delle voci lontane. Sentiva le voci di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi, di Cattaneo. Il tentativo di Renzi di cambiare la Costituzione io vorrei sostenerlo e difenderlo perché è la direzione che va intrapresa e dietro alle resistenze che sono emerse ci vedo soprattutto la volontà di conservazione di piccoli privilegi di un sistema che ha smesso di funzionare. Ma non vorrei che alle voci che sentiva Calamandrei si aggiungesse quella di Beppe Grillo.