22 dicembre 2014

Che fine fanno i soldi pubblici

Il Governo ha messo online un nuovo sito web, annunciato da Renzi qualche settimana fa nel quale si dice come vengono spesi i soldi pubblici. E' un'ottima iniziativa: un sito ben costruito e ben realizzato. La trasparenza nella pubblica amministrazione è una cosa doverosa, alla quale in Italia non si è mai data troppa importanza. In questo sito si può vedere, nel dettaglio, quanto spendono per ogni singola voce di bilancio i Comuni e le Regioni italiane. Questa è una bella cosa, ma c'è un però, grosso come una casa.

10 novembre 2014

La svolta della Bolognina, il giorno che morì il Pci

Ci sono dei giorni in cui la storia ti viene addosso. Se succede non puoi spostarti, devi solo decidere come assecondarla. Puoi anche decidere quale parte fare, consapevole del fatto che sono cose che non ti capitano spesso. E se non sei preparato, non importa.
Il 12 novembre 1989 era una domenica. Il muro di Berlino era caduto da tre giorni ed a Bologna si stava celebrando il 45esimo anniversario di una battaglia partigiana, la battaglia della Bolognina

09 novembre 2014

Mamma, c'è un vecchietto in strada che suona


Mamma, mamma, in tv c'è un vecchietto, in strada, che suona.



Che bello quello che suona, e quel suono che fa quello strumento che sta suonando. Il violoncello, credo che si chiami, ma non ne sono sicuro. Ma dov'è che sta suonando? In strada. forse. Ci sono dei disegni dietro di lui, c'è Topolino! E' strano, è buffo. Intorno sta succedendo qualcosa: dei lavori stradali, mi sembra, o qualcosa di simile. Forse stanno costruendo qualcosa. O forse lo stanno buttando giù, boh. O forse è solo la scenografia di questo spettacolo che sta facendo, magari quel vecchietto è un grande musicista e questa è solo una sua esibizione. Ma non ha quella faccia incavolata dei grandi direttori d'orchestra, no, lui sorride. Forse non è abbastanza bravo per pretendere di incavolarsi in un teatro o forse è talmente bravo che può permettersi di sorridere suonando. E suonare sopra una brutta sedia, vecchia. Ma lui è contento e tutti si divertono intorno a lui. E' una gioia quello che sta suonando, è libertà, è un branco di farfalle che volano. Suonare è difficile, le scale a me non vengono ancora tanto bene. A lui viene tutto facile come a quelli bravi, come a me quando sto giocando, con i miei giocattoli e con i miei sogni.



30 ottobre 2014

Picierno, Camusso e le cose che dovrebbero succedere il giorno dopo

Ieri, un dirigente con posizioni autorevoli del principale partito del centrosinistra italiano, quello che governa (Pina Picierno, eurodeputato, nella fattispecie, ma la cosa è secondaria) ha detto che il segretario del principale sindacato italiano (Susanna Camusso, nella fattispecie, ma la cosa è secondaria) è stata eletta con tessere false.

Nel mondo ideale, quello dove le persone stanno in fila sulle scale mobili, il giorno dopo una dichiarazione, gravissima, di questo tipo dovrebbe succedere una di queste due cose:

22 ottobre 2014

Quelli che restaurano i film

La corsa di Anna Magnani in Roma città aperta era un po' sbiadita. 
Lo sguardo di Clint Eastwood nel duello finale di Per un pugno di dollari aveva perso un po' di intensità. 
Le prime comiche di Charlie Chaplin rovinate e traballanti. 
Ma c'è un luogo, a Bologna dove i capolavori del cinema tornano alla loro meraviglia. Il cinema è un'arte strana, questo si è sempre saputo. Per far sognare, per far riflettere, per far emozionare ha bisogno di tecnologia che, in oltre un secolo di storia, si è rivoluzionata un paio di volte. Ma proprio come le altre opere d'arte, anche il cinema è deperibile e, a volte, per continuare a far riflettere, emozionare e sognare ha bisogno di un restauro. 


19 ottobre 2014

Fassina, Guccini e la lotta alle bufale che non vincerò mai

Come giornalista, come lettore e come cittadino ho voglia di mettermi a piangere.

Piangere perché sui siti di informazione (anche sui giornali, ma sui siti d'informazione hanno una diffusione virale velocissima) sta aumentando esponenzialmente la diffusione di bufale. Notizie false che qualcuno produce (qualcuno per ridere, qualcuno con scopi politici precisi) che si diffondono a macchia d'olio e che molti siti di informazione riprendono acriticamente.

03 ottobre 2014

Le tessere del Pd sono come il curling

Ho una notizia sconvolgente: che ci crediate o no, In Italia, perfino nella politica, addirittura dentro il Pd, accadono cose per le quali non è merito o colpa di Matteo Renzi.

Il calo degli iscritti del Pd è un dato, verificato ed incontrovertibile.

Fra chi ha analizzato questo dato, in molti hanno detto inesattezze, altri clamorose cavolate. Qualcuno perché non conosce a sufficienza il Pd, qualcuno perché, pur conoscendolo anche meglio del sottoscritto, ha preferito strumentalizzare.

Un alto dato di fatto, documentato e incontrovertibile è che il tesseramento del partito, nella sua giovane vita, ha avuto dati altalenanti: i picchi, guarda un po', si sono verificati sempre nell'anno del congresso.

Il Pd, forte, organizzato e radicato come i partiti della prima repubblica, nonostante le mitizzazioni mediatiche, non esiste più. Esiste solo in Emilia-Romagna (e nemmeno in tutta la regione).  Nel resto d'Italia, compresa la rossa Toscana, di organizzazione e radicamento ha solo un pallido ricordo.

In un partito, come in ogni altra organizzazione complessa, oltre ai leader (fondamentali) servono i manovali. In Emilia-Romagna le tessere si fanno: per abitudine, per tradizione, perché si è sempre fatto così. Ma anche perché ci sono centinaia di persone che gestiscono le sezioni e che si prendono la briga di farle, di portarle agli iscritti e di riscuotere la quota. Esattamente come faceva il Pci fino agli anni Settanta, in tutta Italia.

Oggi, nel resto d'Italia le tessere si fanno, in maniera massiccia solo nell'anno del congresso, affinché i leader locali possano far sentire il loro peso su scala nazionale. Poi più niente. L'iscritto meno coinvolto, quello che non frequenta le sezioni, non partecipa ai dibattiti, non fa il volontario alla festa dell'Unità, se non è coinvolto non va, da solo, a prendersi la tessera.

Nel Partito Democratico il tesseramento è come il curling, ce se ne interessa solo una volta l'anno.

Quello che dico ha una riprova: dei 100mila iscritti al Pd nell'anno 1 dopo Matteo, 53mila sono in Emilia-Romagna, dove i dati del tesseramento (pur aumentando in vista dei congressi) sono sostanzialmente stabili. Quasi tutti fra Bologna, Modena e Reggio Emilia. L'effetto Renzi, nel bene o nel male, pesa per una percentuale infinitesimale: c'è qualcuno che ha stracciato la tessera per colpa sua, c'è qualcuno che si è iscritto per la prima volta grazie a lui. Ma la maggior parte degli iscritti ha la tessera perché qualcuno lo ha coinvolto in prima persona.

Per questo brusco calo, c'è chi ha ipotizzato di abolire l'istituto del tesseramento, come, in pratica, hanno già fatto tutti gli altri partiti. Suggestione affascinante: se possa funzionare non lo so, se sia o meno un bene è una decisione che spetta al Pd e su cui ci si potrebbe dilungare per giorni.

Ma una cosa è fuori discussione: alle organizzazioni complesse, siano essi partiti, società, o grandi associazioni, per funzionare servono regole chiare, condivise, conosciute da tutti, certe e applicabili. E che non possono mai, per nessun motivo al mondo, essere cambiate in corsa. Il partito democratico americano (ad esempio) non ha iscritti: ma le regole per la scelta del successore di Obama si conoscono da anni. E non cambieranno.

28 settembre 2014

Bologna, il grande spettacolo di una domenica mattina in Piazza Maggiore

Bologna, domenica 28 settembre, mezzogiorno.

Sei un turista straniero e, grazie a un volo della Ryanair a prezzi stracciati, hai deciso di farti un week end a Bologna, una città di cui hai sentito parlare perché dicono che sia culturalmente vivace, con molte cose interessanti e dove si mangia benissimo.

Hai fatto un giro per il centro, accarezzato da un sole caldo, ma non aggressivo di inizio autunno, sotto un cielo di un azzurro terso e sincero che valorizza e fa splendere quelle meravigliose tonalità di rosso con le quali secoli di gusto architettonico hanno colorato la città.

A mezzogiorno arrivi in piazza Maggiore, magari per un aperitivo, prima di andarti a mangiare i tanto famosi tortellini o le tanto celebrate lasagne.

Di fronte all'ingresso di un palazzo molto bello ed importante, che supponi essere il Comune, c'è un po' di casino. Un gruppo di giovani attivisti ha circondato, con megafoni e striscioni un gazebo con alcune bandiere, il tutto sotto lo sguardo di una decina di poliziotti. Capisci che sia qualcosa che ha che fare con la politica,  d'altronde gli italiani sono uno dei pochi popoli europei che ancora si appassiona alla politica e per questo li hai sempre un po' invidiati.

All'improvviso arriva, correndo e suonando trombe e tromboni, un gruppo di vecchietti. Qualcuno ha una divisa militare, qualcuno no, ma tutti hanno in testa un buffo cappello con delle piume. Suonano e corrono schivando biciclette e passeggini, corrono e suonano sfiorando il banchetto dove quelle altre buffe persone stanno continuando a litigare.

Quindi i vecchietti music-runner si spostano qualche metro avanti per suonare in santa pace, sotto le insegne di una fiera di abiti da sposa. Ma non possono farlo nemmeno lì, perché dall'altra parte della strada c'è un altro vecchietto, in canottiera, che tiene una chitarra a tracolla senza suonarla e spara a tutto volume delle bruttissime basi pre-registrate.

Allora si spostano più avanti, di fronte alla meravigliosa basilica che domina la piazza, di fronte alla quale è montato un palco che sembra a tutti gli effetti quello di un concerto rock, ma che porta l'effige della statua di un santo che benedice, paziente, quella bizzarra e affascinante accozzaglia di persone.

Di fronte al Comune quei tipi che non capisci bene che diavolo di problema politico abbiano, sono costretti a spostarsi perché stanno uscendo due sposi, seguiti da un corteo di parenti. Sono tutti, allo stesso tempo, rumorosi ed eleganti, raffinati e casinisti: solo gli italiani sanno esserlo.

E tu che sei un turista straniero che ha imparato ad amare l'Italia grazie anche ai film di Federico Fellini, sei immerso in uno sgangherato, soleggiato e spettacolare sogno barocco e non puoi fare a meno di innamorarti perdutamente e irrimediabilmente di questo posto.

Nessuna organizzazione culturale della città, e sì che a Bologna ce ne sono di validissime, avrebbe potuto allestire una pièce di questo livello, per giunta senza spendere un euro.

Perché a mettere d'accordo e ad organizzare in una perfetta e gioiosa armonia la Lega Nord, i centri sociali, la fanfara dei bersaglieri, Forza Italia, Beppe Maniglia, alcune coppie di sposi, l'Usb, turisti, commercianti, Curia, passanti e polizia poteva riuscirci solo quello spettacolare ritrovo di zingari, signori, mendicanti, politici, studiosi, bottegai, preti, puttane e musicisti che da secoli è Piazza Maggiore.

23 settembre 2014

Non dovete farne una questione generazionale, dicono

Non dovete farne una questione generazionale, dicono.

Il mio sindacato (Fnsi) venerdì e sabato mi chiede di votare per un contratto con il quale ha svenduto il futuro dei precari per tutelare le buonuscite di chi ha più 15 anni di anzianità. Ma mi dice anche che se non si raggiunge il 50% dei votanti (cosa praticamente impossibile, in tutta l'Emilia-Romagna c'è un unico seggio) non solo i risultati non saranno ritenuti validi, ma le urne non saranno nemmeno aperte.

Ma non dovete farne una questione generazionale, dicono

Il governo sta mettendo mano ad una riforma del lavoro. C'è gente in giro, spesso laureata e masterizzata, che lavora 12 ore al giorno per 600 euro, che è stata costretta ad aprire la partita iva per fare un lavoro da dipendente, che non ha la malattia, non ha la maternità, spesso non ha nemmeno un contratto. E tutto il dibattito si fonda sull'articolo 18.

Fra le persone che conosco, fra i 25 e i 40 anni, quelli che nel caso possono godere del tutele dell'articolo 18 sono un 10-20% (me compreso, per onestà).
Ma non dovete farne una questione generazionale, dicono.

L'articolo 18 in Italia è stato abolito da anni per una larga fetta della popolazione, senza che quei sindacati che oggi fanno tanto chiasso abbiano mosso un dito. I Co.co.co, le finte partite Iva, i lavoratori a termine, quelli delle piccole aziende, possono essere già essere licenziati, dall'oggi al domani, senza la minima tutela. Questa situazione di profonda ingiustizia si è venuta a creare mentre i sindacati e i partiti di sinistra sbraitavano per difendere l'articolo 18.

A me hanno insegnato che la sinistra, se vuole essere tale, deve difendere soprattutto i più deboli. Oggi in Italia i più deboli non sono quelli che godono dell'articolo 18.

Se difendere l'articolo 18 (una conquista fondamentale per garantire all'Italia uno sviluppo più giusto) significa evitare che i lavoratori vengano discriminati bene, ma se vuol dire lasciare tutti gli 'sfigati' nella loro attuale situazione perché è più comodo così, a me non interessa.

Ok, non ne facciamo una questione generazionale. Ma a me, ultimamente quando sento parlare di diritti acquisiti, viene da mettere mano al passaporto.

03 settembre 2014

Appello agli elettori del Pd: non votate quelli che cercano di entrare per forza nelle inquadrature delle tv

A Bologna è in pieno corso di svolgimento la Festa nazionale dell'Unità. Forse l'evento politico più bello e significativo che è rimasto nel nostro paese: perché è quello che intende la politica in maniera più popolare, nel senso più bello della parola popolare: la musica, le chiacchiere, il buon cibo, discussioni sul futuro del paese, sulla cultura alta e sulle facezie. Tutto insieme, in un unico luogo. Ed è bello che un partito si senta in dovere di organizzare una cosa di questo tipo.

C'è però un malcostume, che non esiste solo nel Pd, ma che alla festa dell'Unità trova una rappresentazione plastica. Alla festa nazionale dell'Unità c'è una sfilata di big della politica nazionale: ministri, dirigenti di partito, sindaci, presidenti di Regione, personaggi più o meno noti che, al loro arrivo, vengono accerchiati dalle mischie di giornalisti ed operatori che vogliono ascoltare quello che hanno da dire e fare loro delle domande. Le cui risposte il cittadino/elettore/telespettatore leggerà sui giornali e sui siti di informazioni e vedrà in tv.

E' tentazione incontrollabile per i politici locali (nella loro legittima ricerca del consenso, in vista di scadenze elettorali vicine o lontane) di prodursi in un attento e laborioso balletto di posizionamento, simile a quello che usano i ciclisti negli ultimi chilometri di una tappa che precedono una volata, per piazzarsi alle spalle del big politico di turno per far sì di trovarsi alle spalle  del suddetto big, con un espressione compunta ed assertiva, quando si accenderanno le telecamere o scatteranno i clic dei fotografi.

Agli elettori che, legittimamente, decideranno di votare il Pd, lancio questo appello: prendete in considerazione, nell'atto dell'espressione di una preferenza, quei politici che proprio mai, nemmeno per sbaglio, hanno cercato di entrare di sbieco in queste patetiche inquadrature.

Il mio appello non è solo una questione di interesse professionale: certo quelle mischie delle quali il cittadino/elettore/telespettatore vede in tv solo una piccola parte, sono un luogo che può essere anche un po' pericoloso per chi le frequenta: ci si spinge, ci si strattona, si rischia di prendere una telecamera in testa e quindi meno gente c'è in mezzo meglio è per tutti (compreso il CET che vedrà in tv un'immagine migliore). Quelle mischie durano, in genere, pochi minuti: quindi un politico locale ha tutto il tempo che vuole per scambiare due chiacchiere o fare quello che vuole con il politico di turno.

Il mio appello ha anche una ragione più nettamente politica. Io, non nella mia veste di giornalista, ma in quella di CET, vorrei votare, come mio rappresentante nelle istituzioni locali, un politico che si guadagna il mio voto con iniziative e posizioni condivisibili e non solamente perché l'ho visto appollaiato dietro il big di passaggio.

Vorrei votare, insomma, qualcuno che ha la personalità, il coraggio e le idee di guadagnarsi da solo uno spazio mediatico perché quello che che fa e quello che dice è interessante e non perché cerca di lucrare pateticamente qualche preferenza cercando di essere illuminato da una qualche luce riflessa. Che si trova lì, insomma, solo perché il CET lo veda in un tg o sulla fotogallery di qualche sito.

Vorrei votare uno che magari impiega quel tempo che serve per posizionarsi abilmente alle spalle di un ministro o di un leader politico per fare qualcosa di più utile per se stesso, per la comunità e per i CET stessi: parlare con le persone, risolvere un piccolo problema, organizzare un'iniziativa.

Poi, se è bravo, in tv o sui giornali ci va per i propri meriti, inquadrato bene e non di sbieco.

08 luglio 2014

Chi ha chiesto le dimissioni di Vasco Errani e chi gli ha chiesto di ritirarle

Chiedere a Vasco Errani, condannato in appello ad un anno di reclusione per falso ideologico di ritirare le dimissioni significa non conoscerlo.

Io, che per il mestiere che faccio di politici ne ho conosciuti e ne conosco parecchi, rarissimamente ho visto la competenza, la preparazione, il senso delle istituzioni, la rettitudine morale e la capacità di risolvere i problemi di Vasco Errani. Le dimissioni un secondo dopo la sentenza ne sono l'ennesima dimostrazione. Uno come lui non starebbe neanche un secondo in una posizione come quella di presidente della Regione da condannato sia pure, è bene ricordarlo, in via non definitiva.

Allora perché chiedergli, come ha fatto e sta facendo il Pd, di ritirare le proprie dimissioni?

Perché le dimissioni di Errani provocano il probabile voto anticipato e questa non è una buona notizia per il Pd.

Per la scelta del suo successore (che vede in pole position Stefano Bonaccini, con Daniele Manca e Roberto Balzani che faranno la loro corsa) il voto anticipato scombussola i piani. Il Pd deve fare un congresso regionale a inizio ottobre. La corsa vera per la candidatura alla presidenza sarebbe dovuta cominciare dopo il congresso, con un assetto chiarito e con rapporti di forza definiti e ben inquadrati. Il voto anticipato scombussola tutti questi piani, aprendo un gran premio senza prove, dove non mancheranno i colpi bassi per vedere per primi la bandiera a scacchi. E questo il Pd se lo sarebbe evitato volentieri.

Senza considerare poi che sarebbe decisamente stato meglio andare a votare insieme alle altre Regioni, a marzo, in un contesto che a livello mediatico sarebbe finito per essere percepito come nazionale e dove, cioè, il traino di Matteo Renzi avrebbe funzionato meglio. Il voto in autunno sarebbe un voto solo locale. Affrontarlo con una condanna per falso ideologico come punto di partenza e causa scatenante non è il massimo della vita.

E per questo che nessuno, dentro il Pd, vuole che Errani si dimetta, per evitare la guerriglia, dentro e fuori dal partito.

Perché (e questo vale sia per le primarie, sia per le elezioni regionali) la battaglia di solito la vince il più forte, la guerriglia non si sa mai.

23 giugno 2014

Giornalisti: l'accordo sull'equo compenso è una porcheria. Facciamo un patto tra generazioni o non ci leviamo le gambe

L'accordo sull'equo compenso (quello siglato tra la federazione degli editori e il sindacato dei giornalisti che prevede che un lavoro continuo, coordinato e continuativo possa essere pagato 250 euro al mese) è inaccettabile. Inaccettabile per la cifra offensiva che pone, inaccettabile perché si autodefinisce equo, ma inaccettabile, soprattutto, per lo scenario della professione giornalistica che disegna per il futuro prossimo. E la qualità della professione giornalistica (spesso lo diamo per scontato, ma è utile ricordarlo) ha a che fare con la qualità della democrazia.

Ci si potrebbe chiedere come possa un sindacato accettare e sottoscrivere in una trattativa, uno stipendio minimo da 250 euro per la parte più debole della propria categoria, quella cioè che più di ogni altra avrebbe bisogno di essere difesa.

Così a me è venuto un bruttissimo e cattivissimo pensiero, che sicuramente sarà frutto della mia sola perfida fantasia.

Sarà, infatti sicuramente un caso, che questo accordo, dopo che la legge sull'equo compenso esiste, inapplicata, da tempo, arrivi in concomitanza del rinnovo del contratto.

E sarà sicuramente un caso che il vertice della Fnsi abbia delle grossissime preoccupazioni sulla tenuta del consenso dei propri iscritti, che da anni, vedono falcidiate le loro redazioni con prepensionamenti selvaggi e poche gratificazioni per chi rimane.

E sarà sicuramente un caso che uno dei casi più controversi del rinnovo del contratto sia la vicenda della fissa.

(Che diavolo è la fissa?)

La fissa è un istituto di quelli che possiamo tranquillamente includere fra i privilegi di cui godono i giornalisti. E' una specie di liquidazione-bis che viene data ai giornalisti che se ne vanno in pensione. Siccome negli ultimi anni  di giornalisti ne sono andati in pensione moltissimi, il fondo è diventato insostenibile per le aziende e nel contratto la Fieg vorrebbe rivedere fortemente, o meglio ancora smantellare, questo contributo.

Per stessa ammissione del sindacato, è questo il punto su cui è più difficile trovare un accordo. La Fnsi vorrebbe 'salvare' la fissa (sia pure fino a un tetto di 65mila euro e con una rateizzazione di 15 anni) per i giornalisti che hanno maturato almeno 15 anni di anzianità aziendale. Per gli altri i soldi che vengono investiti in questo fondo sarebbero investiti nella previdenza complementare, cosicché le aziende non si troverebbero a dover pagare un salasso quando un loro dipendente va in pensione. Gli editori, ovviamente, non vogliono nemmeno sentirne parlare.

Non vogliono sentirne parlare perché considerando che la stragrande maggioranza degli assunti hanno un'anzianità aziendale superiore ai 15 anni e che molti di loro nei prossimi dieci-quindici anni se ne andranno in pensione il costo che dovrebbero sostenere sarebbe pesantissimo.

D'altronde il sindacato ha come unica possibilità di salvare la propria faccia nei confronti di una platea di iscritti imbufaliti (anche per la scarsa trasparenza con cui è stata condotta questa trattativa) e di non vedersi respingere un eventuale accordo in un referendum (visto che la stragrande maggioranza di quelli che, dentro le redazioni, sarebbero chiamati a votare per un referendum hanno più di 15 anni di anzianità) quella di salvare, in qualche modo la fissa. A tutti i costi.

Ecco, appunto, a tutti i costi.

Quindi sarà sicuramente un caso che l'accordo sull'equo compenso sia arrivato a cavallo della trattativa sul nuovo contratto.

E' chiaro che un contratto con il sangue della parte più debole, più povera e meno difesa della categoria non può essere firmato. Non solo perché non è giusto, ma anche perché è distruttivo per tutto il sistema. Con un pezzo di chi fa questo mestiere che guadagna - sistematicamente, legalmente e istituzionalmente - circa dieci volte meno di un altro pezzo, credo che non ci sia bisogno di spiegare perché.

Da un punto di vista sindacale, qui si rischia di creare un tutti contro tutti che sarebbe deleterio. Mi permetto di dirlo dalla posizione di uno che, per sua fortuna, ha i diritti e i privilegi degli assunti a tempo indeterminato, ma l'età di molti dei colleghi che vedono come prospettiva per i prossimi anni quella di guadagnare 250 euro al mese e che il precario sottopagato lo ha fatto per anni, quindi sa di cosa si parla.

Per questo serve un patto tra generazioni.

Rinunciamo, sul tavolo della trattativa, alla fissa.

Lo so che questa proposta farà incazzare la totalità dei colleghi che hanno almeno dieci anni più di me che su questi soldi magari ci hanno già fatto i conti per trascorrere una pensione più serena o per compensare quelli che perderanno in caso di un prepensionamento.

Ma lo si prenda non solo come un sacrificio personale per garantire un'esistenza più dignitosa ai colleghi più giovani, ma anche come un investimento sul futuro di questo sciagurato e meraviglioso mestiere, per quelli ideali che ognuno di noi aveva, che in qualche caso ha perso in qualche altro no, quando ha cominciato. Un investimento, scusate la retorica, che si fa sulla democrazia in Italia.

In cambio pretendiamo che chi lavora venga pagato in maniera dignitosa, sempre, senza eccezioni. Troviamo insieme i modi, le formule e le condizioni. L'ipotesi di un salario d'ingresso, con tutele inalterate, sia pure con un ricorso regolato e circostanziato ai contratti a termine, ma a stipendio crescente, ad esempio, a me, a differenza di quello che sostengono i coordinamenti dei precari, sembra un compromesso accettabile su cui vale la pena ragionare. D'altronde quante assunzioni sono state fatte in Italia negli ultimi cinque anni?

Quindi manteniamo la calma.

Io voglio continuare a credere che questo mestiere è fatto da persone che non baratteranno l'idea di comprarsi la macchina nuova quando andranno in pensione con la prospettiva di lasciare terra bruciata dietro di loro. Perché questo mestiere non lo facciamo per gli altri, ma perché crediamo che una società più informata sia una società più giusta. O no?

+++AGGIORNAMENTO+++

Stamattina, 24 giugno, è stato firmato il contratto dei giornalisti. Che tiene dentro l'accordo sull'equo compenso (250 euro al mese) e salva la fissa (con un tetto di 65mila euro) per chi ha almeno 15anni di anzianità aziendale. Amen

16 giugno 2014

Ho sognato la diretta streaming

Stanotte ho sognato la diretta streaming.

Da una parte c'erano quelli del Pd, dall'altra la delegazione del Movimento 5 Stelle.

Non avevano l'aria né di prendersi per il culo, né di fare le barricate puntando allo 0-0.

Quelli del Pd proponevano l'Italicum e quelli del M5S stavano a sentire. Poi dicevano loro che sì, a parte qualche boiata di quelle che vengono fuori quando una cosa delicata come una legge elettorale si fa insieme al partito d'opposizione, pensando entrambi a trarne il massimo profitto alle prossime elezioni, tutto sommato è utile garantire una governabilità a chi vince.

Poi anche quelli del M5S illustravano la loro idea di legge elettorale e quelli del Pd li stavano a sentire. Poi dicevano ai cittadini-portavoce che sì, a parte qualche boiata di quelle che vengono fuori quando una cosa delicata come una legge elettorale si fa in modalità wikipedia coinvolgendo paranoici, onanisti e ingegneri nucleari, tutto sommato non è una brutta idea.

Allora quelli del Pd rilanciavano: "ok, cari cittadini della rete, facciamo l'accordo sulla legge elettorale, ma facciamolo anche sulle riforme costituzionali: la Camera approverà in via esclusiva la fiducia, le leggi di bilancio e avrà in mano il pallino del processo legislativo. Il Senato si occuperà, insieme alla Camera, di leggi costituzionali e elettorali, elezione del presidente della Repubblica, diatribe Stato-Regioni ed avrà alcune materie in cui approverà le leggi in seconda lettura".

Gli amici di Beppe Grillo ascoltavano silenziosi, ma un po' perplessi.

"Il Senato - andavano avanti i simpatici delegati Pd - sarà ovviamente elettivo, che quella storia di farci andare i sindaci a tempo perso non lo dicevamo mica sul serio, era solo per placare un po' di quello spirito populista che avete fomentato voi. Ma lasciamo stare, scordiamoci il passato. Magari riduciamo il numero di deputati e senatori, ma non troppo, perché lo sapete anche voi che in Parlamento bisogna che ci sia una rappresentanza sensata e ragionevole dei territori e delle categorie".

"Perché - la buttavano là in una clima di crescenti ammiccamenti i messi del presidente del consiglio - non facciamo insieme una legge elettorale coerente con questo progetto? Voi, o simpatici mattacchioni che non si sa come mai vi siete innamorati del proporzionale, ci concedete una legge elettorale per la Camera chiaramente maggioritaria, in cambio vi buttiamo sul piatto la possibilità di eleggere il Senato in maniera proporzionale. Tutto con le preferenze, niente liste bloccate che, diciamoci la verità, facevano schifo anche a noi".

I portavoce dei cittadini si guardavano intorno perplessi, con un'espressione a metà fra chi fiuta la fregatura e chi spera di aver svoltato.

Nel frattempo quelli del Pd sfoderavano quella sfacciataggine tipica dei venditori di enciclopedie porta a porta: "Vedete, amici pentasperati:  se riusciamo ad approvare queste riforme, poi possiamo andare a votare. E dopo le elezioni, pensate che figata, chi vince fa un governo che può attuare il suo programma in maniera spedita. In compenso non può cambiare le regole, eleggere il presidente della Repubblica e decidere di smontare pezzi di stato senza cercare un accordo con la minoranza, perché il Senato - proporzionale proporzionale - è lì per tutelare tutti. Chi vince comanda. Chi perde è tutelato e può lavorare per vincere la volta dopo".

Nella delegazione dei rappresentanti dei cittadini qualcuno si lasciava scappare un sorrisino.

Poi uno dei duri e puri "Manigoldi! - tuonava - Lo fate solo per ricompattare il vostro partito e per dare la colpa a noi del fatto che volete mandare in esilio Corradino Mineo e Vannino Chiti in un agriturismo della montagna pistoiese!".

Ma i carinissimi vessilliferi piddini non si scomponevano, anzi sghignazzavano: "Beh, sì, quello in effetti era l'obiettivo di riserva… Ma pensate solo a una cosa - rilanciavano melliflui - se accettate questa proposta e approvate insieme a noi le riforme, Berlusconi si trasferisce definitivamente a Cesano Boscone e voi vi accreditate agli occhi degli elettori come una forza responsabile e che non sa solo fare casino. E' questo che vi è mancato per vincere le europee come invece pensavate, no?"

Gli alleati di Farage si dimenavano sulla sedia, qualcuno era contento della proposta e voleva accettare subito, qualcuno scriveva un sms a Casaleggio, qualcuno sparava dei tweet di frustrazione, qualcuno chiedeva la consultazione della rete (eh, lo so, erano tantissimi….), qualcuno voleva mettere la diretta streaming in Costituzione, ma aleggiava un certo ottimismo.

A quel punto mi sono svegliato tutto sudato.

Dovrei stare più leggero a cena.


09 giugno 2014

Alcune cose che Livorno dovrebbe insegnare al Pd

Il risultato di Livorno, dove il centrosinistra per la prima volta ha perso il Comune, insegna alcune cose al Pd, reduce dal trionfo elettorale di appena due settimane fa.

Nella politica bipolare si può vincere e perdere ovunque e comunque. Certo, ci sono luoghi dove le tradizioni, il radicamento, l'impostazione complessiva, dove vincere o perdere è un po' più facile che altrove. Ma perdere Livorno e vincere in zone considerate tradizionalmente di centrodestra, significa che ogni vittoria va conquistata.

A Livorno il Pd è stato autoreferenziale e ottuso. Ha presentato un candidato sbagliato, uscito da una serie di vicende che hanno dato una pessima immagine del Pd, e che dopo essere stato candidato sindaco ha provato immediatamente a prendere le distanze dal sindaco uscente, come se non avesse fatto il segretario del partito e il capogruppo in Regione. Ha rifiutato il dialogo con altri pezzi di centrosinistra e ha spianato la strada al Movimento.

Tutto questo significa soprattutto una cosa: quando il Pd fa il Pd, e cioé incarna (o comunque riesce a trasmettere, che in campagna elettorale sono praticamente la stessa cosa) un messaggio di progresso (vorrei dire di sinistra, ma ultimamente è diventata una parola troppo equivocabile) vince.

Quando rappresenta la conservazione perde.

Lo dimostrano i risultati nazionali degli ultimi anni e lo dimostrano anche quelli dei singoli comuni: Livorno è solo l'ultima dimostrazione.

Si può provare ad applicare questo semplice schema ad ogni elezione, nazionale e locale degli ultimi anni e ci si renderà conto che è (quasi) sempre vero.

23 maggio 2014

Il centrosinistra per la prima volta ha paura dei ballottaggi

Dal 1993 in Italia esistono i ballottaggi: nei Comuni con più di 15mila abitanti, se nessun candidato raggiunge il 50%, si fa uno spareggio fra i due più votati per decidere chi diventa sindaco.

Il centrosinistra, tendenzialmente, ha beneficiato più del centrodestra di questa innovazione politica: in un ventennio in cui il centrodestra è stato più vincente a livello politico, il centrosinistra è riuscito a vincere un numero significativamente maggiore di Comuni. E questo è avvenuto anche grazie ai ballottaggi.

Prendendo in esame le elezioni amministrative svolte dal 1993 al 2013 nei capoluoghi di provincia, si vede che il centrosinistra ha vinto nel 61,8% dei casi, il centrodestra nel 36,6%, poco più della metà.



(Risultati delle elezioni comunali in Italia nel periodo 1993-2013)

Un successo reso possibile anche grazie ai ballottaggi, che, in sintesi, sono andati così: il centrosinistra ha vinto il 66% dei ballottaggi che si sono svolti, circa 2 su 3. Nel 16,7% il centrosinistra ha vinto dopo che al primo turno era in svantaggio, impresa che al centrodestra è riuscita solo nel 7,5% dei casi


(Risultati dei ballottaggi nei Comuni capoluogo nel periodo 1993-2013)

Ho fatto lo stesso calcolo dividendo l'Italia in tre "ecosistemi" politici: il nord, le cosiddette regioni rosse (Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria) e il centrosud.

Al nord, dove il centrodestra è tradizionalmente forte grazie anche al radicamento della Lega Nord, il centrosinistra ha avuto un grandissimo successo nei ballottaggi, tanto che al centrodestra quasi mai è riuscita la "rimonta".

(Risultati delle Comunali nei capoluogo delle regioni del nord nel periodo 1993-2013)
(Risultati dei ballottaggi delle Comunali nei Comuni capoluogo delle regioni del nord nel periodo 1993-2013)




Nelle regioni rosse il successo del centrosinistra è stato, comprensibilmente, ancora più schiacciante (circa l'82% di vittorie) e anche nei ballottaggi il successo gli ha sorriso in 3/4 dei casi, sempre partendo da una posizione di vantaggio.

(Risultati delle Comunali nei capoluogo delle regioni rosse nel periodo 1993-2013)

(Risultati dei ballottaggi delle Comunali nei Comuni capoluogo delle regioni rosse nel periodo 1993-2013)



Al centro-sud, invece, zona dove spesso per il centrosinistra sono state lacrime e sangue, la situazione è più equilibrata, ma il centrodestra è comunque in svantaggio. Svantaggio che si fa ancora più evidente quando si prende in esame l'andamento dei ballottaggi.


(Risultati delle Comunali nei capoluogo delle regioni del centro-sud nel periodo 1993-2013)

(Risultati dei ballottaggi delle Comunali nei Comuni capoluogo delle regioni del centro-sud nel periodo 1993-2013)



Tutti questi grafici per dire cosa? Che i ballottaggi sono un meccanismo che negli ultimi vent'anni ha favorito il centrosinistra. I motivi sono essenzialmente due:
1) una migliore capacità di mobilitazione degli elettori del centrosinistra rispetto a quelli del centrodestra (vanno a votare più volentieri anche quando non c'è la posta in palio del governo del paese e lo fanno senza problemi anche a distanza di due settimane):
2) una migliore capacità di produrre una classe dirigente locale e radicata sul territorio.

Le elezioni di quest'anno, però, fanno registrare per la prima volta un'anomalia: il centrosinistra ha, nel Movimento 5 stelle, un avversario che sulla carta si preannuncia molto forte proprio su questo campo, come insegna il caso-Parma di due anni fa, quando Federico Pizzarotti vinse il ballottaggio nonostante lo svantaggio.

In molti Comuni in cui si va al voto (a cominciare da quelli delle regioni rosse) il centrosinistra potrebbe avere i voti necessari per essere in vantaggio al primo turno, ma non sufficienti per evitare il ballottaggio.

E il ballottaggio con i candidati del M5S rappresenta tutta un'altra storia rispetto agli "abituali" ballottaggi con le forze di centrodestra: sia per la capacità di mobilitazione, sia perché potrebbe essere più facile, per il movimento di Beppe Grillo, raccogliere al secondo turno i voti che al primo sono andati al centrodestra, i cui elettori potrebbero decidere di dare un voto per penalizzare l'avversario storico, puntando sulla novità a 5 stelle.

E' per questo motivo che il centrosinistra, per la prima volta in vent'anni, ha paura dei ballottaggi.

12 maggio 2014

Anche i preti potranno sposarsi. Forse

E' passata un po' troppo inosservata, secondo me, un'intervista pubblicata oggi a pagina 15 del Quotidiano nazionale (Nazione, Giorno e Resto del Carlino). Giovanni Panettiere, un giornalista molto in gamba e che conosce bene i meccanismi della Chiesa, ha intervistato Nunzio Galantino, il nuovo segretario generale della Cei. Un vescovo che è stato nominato in una delle posizioni più 'politiche' della Chiesa italiana, direttamente da papa Francesco. Si può supporre, quindi, anche da chi non conosce bene i meccanismi della Chiesa come noi, che si tratti di una persona che con il pontefice ha una certa vicinanza.

Panettiere chiede a monsignor Galantino cosa ne pensi dei "valori non negoziabili" quelli su cui La Cei ha impostato le sue battaglie negli ultimi anni.

"In passato ci siamo concentrati esclusivamente sul no all'aborto e all'eutanasia. Non può essere così, in mezzo c'è l'esistenza della vita che si sviluppa. Io non mi identifico con i visi inespressivi di chi recita il rosario fuori dalle cliniche che praticano l'interruzione della gravidanza, ma con quei giovani che sono contrari a questa pratica e lottano per la qualità delle persone, per il loro diritto alla salute, al lavoro".
E poi ancora gli si chiede cosa augura alla Chiesa italiana. E qui la risposta è ancora più clamorosa.

"Che si possa parlare di qualsiasi argomento, di preti sposati, di eucarestia ai divorziati, di omosessualità, senza tabù, partendo dal Vangelo e dando ragioni alle proprie posizioni".

 Ecco, siccome Galantino non è un prete di periferia, ma il segretario generale della Cei non mi sembrano dichiarazioni di poco conto.

09 maggio 2014

Il miracolo delle Social Street

(Uscito su Ansa Magazine)

Giovanni aveva bisogno di un trapano. E' arrivato Matteo che non solo gli ha prestato il trapano, ma lo ha anche aiutato a montare una mensola. A Britta serviva una brandina per ospitare i suoi genitori che la venivano a trovare dalla Germania. Elide e Fabienne gliel'hanno portata. Nina aveva un importantissimo colloquio di lavoro via Skype e mezz'ora prima del collegamento le è andato in palla il computer. Saverio le ha messo a disposizione una postazione nel suo ufficio permettendole di non mandare in fumo mesi di lavoro.
E pensare che nessuno di loro, pur abitando a pochi passi di distanza, si conosceva.
Sono le storie di non ordinaria normalità che avvengono ogni giorno in via Fondazza, a Bologna, la prima social street del mondo.
E' la strada che sta insegnando una cosa semplice e dimenticata, soprattutto nelle grandi città: il vicino di casa non è qualcuno da temere o con cui litigare alle riunioni di condominio, ma una persona che, se può, ti aiuta.
Il fenomeno social street nasce in via Fondazza sette mesi fa. Federico Bastiani, toscano trapiantato a Bologna, si è stufato di non sapere niente delle persone che incontra tutti i giorni quando esce di casa. Stampa un paio di volantini e li distribuisce nei negozi della sua strada: "ho creato un gruppo su Facebook degli abitanti di via Fondazza, iscrivetevi". Il successo è immediato e sorprendente. Centinaia di persone rispondono all'appello e fanno nascere la prima social street.
"Regole predefinite non ce ne sono - dice Federico - Facebook è solo un mezzo per far incontrare le persone". E le persone che fino al giorno prima si erano ignorate - miracolo - cominciano ad incontrarsi. Sul web si parla dei problemi della strada, delle questioni da affrontare e da risolvere, ma partono anche un mucchio di idee: si organizza una festa di Natale, una mostra fotografica, si lancia un progetto per gestire un giardino comunale, sia abbellisce la strada con alcune fioriere fatte con materiali di recupero.
E poi, soprattutto, ci si incontra e, nei limiti del possibile, ci si aiuta. C'è chi vuol vendere un frigorifero, chi chiede informazioni sui medici della zona, chi si è appena trasferito e vuole conoscere qualcuno. Nessuno spende niente e nessuno ci guadagna niente.
Ma da allora in via Fondazza il clima è cambiato: sotto i portici della casa dove abitò e lavorò anche il pittore Giorgio Morandi quando la gente s'incontra non si guarda più con indispettita indifferenza, tutti si salutano, si sorridono, ognuno s'interessa della vita dell'altro.
Talmente semplice, da essere rivoluzionario.

Un modello da esportare

E così succede che Federico e i fondazziani decidono che il loro modello può essere esportato. Aprono un sito web (www.socialstreet.it) e raccontano, con la stessa semplicità, quello che hanno fatto. A pensarci bene ogni strada di ogni città può diventare via Fondazza. Basta che ci sia qualcuno che si prende la briga di aprire un gruppo su Facebook e di mettere un paio di volantini nei negozi e poi il gioco è fatto.
A Bologna ne nascono subito una decina, poi il fenomeno comincia ad allargarsi. Incontenibilmente. Tutti scrivono in via Fondazza per chiedere come si fa. La risposta è di una tale banalità che sembra pronunciata da un profeta: "fidatevi di chi vive vicino a voi".
Dopo sette mesi dall'esperimento di Federico le Social Street sono circa 230 ed il numero è in continuo aumento. "Le social street - dice Federico - non hanno delle regole prestabilite, noi ci siamo limitati a raccontare agli altri quello che abbiamo fatto noi, a rendere pubblico, cioè un modello che nel nostro caso ha funzionato. Ma ognuno può organizzarsi come crede, anche perché ogni strada ha i suoi problemi, le sue caratteristiche e le sue opportunità".

Via Fondazza ha comunque continuato a fare da collettore delle buone pratiche.
In via Maiocchi a Milano hanno organizzato uno 'swap party' per far diventare social il cambio dell'armadio: ci si ritrova una domenica pomeriggio e chi ha un vestito che non usa più può portarlo e scambiarlo con un altro vestito.

In via Pitteri a Ferrara hanno costruito una piccola biblioteca. Hanno costruito una piccola cassetta con dentro una ventina di libri. Chi vuole prende un libro, lo legge e lo riporta nella cassettina. O lo tiene con sé per sempre, ma, in questo caso, lo sostituisce con un altro libro.
In via Saragozza a Bologna e nel centro storico di Tricase (Lecce) la social street ha organizzato una giornata di 'pulizie di primavera': un modo per prendersi cura dello spazio pubblico, ma anche per conoscersi e fare nuove amicizie lavorando insieme a qualcosa di concreto.

Nel Rione Marina di Finale Ligure (Savona) Lara chiede una mano per fare un trasloco. C'è chi arriva con un furgoncino chi porta focacce e bottiglie. Alla fine si ritrovano decine di persone, tutti sconosciuti, che in quattro e quattr'otto finiscono il trasloco e poi improvvisano una festa.
Da Bologna il fenomeno si è esteso: ne stanno nascendo soprattutto nelle grandi città, a Milano, a Roma, a Torino, ma anche in piccoli centri dove, negli ultimi anni, i contatti sociali tradizionalmente più forti si sono allentati.

Il modello Fondazza ha anche varcato i confini: ne è nata una in Slovenia e nelle ultime settimane il fenomeno ha preso piede in Portogallo dove ne sono nate una decina: come in rua de Pracas e avenida Reis a Lisbona e in tua de Santa Catarina a Porto. Una bandierina è stata piantata perfino in Nuova Zelanda e mail sono arrivate anche da Brasile e Cile. "Di questo passo conquisteremo il mondo", scherza Federico. Scherza fino ad un certo punto.

Cambiare il mondo, una via per volta

L'obiettivo di cambiare il mondo partendo dalla propria strada adesso continua cercando di mettere in rete le social street, per scambiarsi idee su iniziative e attività, ma anche per coordinarsi per provare a diventare un interlocutore delle amministrazioni. Il Comune di Bologna ha già aperto un canale con le social street ed ha varato un innovativo regolamento sulla cittadinanza attiva. Chi vuole, autorganizzandosi, può fare richiesta per gestire un piccolo spazio pubblico. Non è ovviamente rivolto solo alle social street, ma tanti gruppi di strada hanno già cominciato a pensare seriamente a come sfruttare questa possibilità.
"A Bologna - dice Federico Bastiani - adesso stiamo facendo un lavoro di coordinamento: abbiamo fatto un'iniziativa per presentarci alla città e c'è un coordinamento per fare in modo che le buone pratiche di ogni strada possano essere replicate in modo semplice nelle altre strade. Fare gruppo permette anche di relazionarsi in modo più semplice con il Comune".
Nel frattempo in via Fondazza non è arrivato solamente il Comune di Bologna, ma anche ricercatori e studenti delle Università che vogliono studiare questo fenomeno.
Difficile prevedere dove si andrà a finire. Per ora è più che sufficiente così. E' sufficiente l'idea di aver reso il mondo, qualche strada del mondo, un posto un po' migliore e un po' più accogliente. Una via per volta.

25 aprile 2014

Il 25 aprile è festa nazionale, ma non in tv

25 aprile, sono le nove e un quarto.

Su tutti i canali tv, generalisti, specialisti, del digitale terrestre, della tv satellitare, non ce n'è uno, dico uno, che abbia impostato la sua programmazione tenendo conto che oggi è il 25 aprile.

Non ce n'è uno, neanche a pagare, che faccia vedere una trasmissione, un approfondimento, un documentario, un film, un cartone animato un qualsiasi straccio di programma, non dico che parli di Resistenza, ma neanche che dia il senso che oggi in Italia, che oggi per gli italiani è festa nazionale.

E questo, al di là di come la si pensi, è un problema culturale gigantesco.

04 aprile 2014

Contro il selfie

Non mi ricordo chi ha detto (nel caso non lo avesse detto nessuno lo dico io adesso) che quando si scrive bisognerebbe usare le parole come se si stessero usando per la prima volta. Farlo è difficilissimo. Il luogo comune, l'espressione abusata, la parola furba, sono sempre lì ad aspettarci, pronti ad aiutarci, ad offrirci una scorciatoia come un diavolino tentatore, quando siamo in difficoltà. Ma bisogna saper resistere.

Ora: io non ho niente, ma proprio niente niente, contro chi si fa le foto da solo. Singolarmente o in compagnia, nudo o vestito, a casa sua o in giro per il mondo. Va benissimo, anzi è divertente. Gli smartphone ci danno questa meravigliosa opportunità di inquadrare noi stessi mentre ci fotografiamo, perché non sfruttarla? Bellissimo.

Fatto sta che da qualche mese a questa parte, direi più o meno da quando qualche recondita e indefinita autorità deputata allo scopo ha deciso che la parola dell'anno 2013 era SELFIE, ovvero la foto fatta da soli, con lo smartphone, abbiamo cominciato ad usarla senza sosta.

Ad usarla così, per il solo gusto di usarla. Chi usava il proprio telefonino per farsi una foto diventava automaticamente una cosa di cui si doveva parlare: sui media se famoso, sui social se nostro amico, ovunque. Bastava poter usare quella parola che in pochi mesi si è logorata come è successo a pochissime altre parole nella storia delle parole che si sono logorate. E ad usarla spesso anche a sproposito: ho visto spesso foto che ritraevano qualcuno, ma palesemente fatte da altre persone, essere definite con quella stramaledettissima espressione, solo per l'urgenza insopprimibile di poterla usare, per sentirsi parte della comunità che la usava.

Ovviamente passerà anche questa, ce ne faremo una ragione e troveremo un'altra parola da bruciare in pochi mesi.

Ma visto che le parole vanno usate come se si stessero usando per la prima volta, oggi, almeno per un po' di tempo, quella parola lì non è più utilizzabile. Da nessuno, in nessun caso.

Peraltro in italiano da decenni esiste un sinonimo: autoscatto.

Ma prima che la maledetta assurgesse agli onori delle mode lessicali, dite la verità, quante volte in tutto avete usato o sentito dire o letto nella vostra vita la parole autoscatto, rispetto a - diomiperdoni - selfie?

03 aprile 2014

Ma voi lavorereste gratis?

La presidente della Provincia di Bologna Beatrice Draghetti oggi è triste come lo sono tutti i suoi colleghi.

La Camera ha approvato il decreto Delrio, quello per intendersi che non abolisce le Province, ma le trasforma in enti di secondo livello. Ovvero che salva la dimensione territoriale che, per come è fatta l'Italia (la sua storia è tutta fondata sul rapporto fra le città e il suo contado) è l'ambito territoriale più concreto che c'è, ma ne elimina la dimensione politica rendendo questo nuovo ente uno strumento nelle mani dei sindaci per organizzare dei servizi che richiedono una dimensione territoriale un po' più grande di uno o più Comuni.

Qui, dell'approvazione di questa legge, siamo parecchio felici, anche perché sul tema poteva nascere un gigantesco casino.

Tutto bene, ma c'è un però.

Per salvare questa legge da un'imboscata parlamentare al Senato, è stato inserito un emendamento che ha un suo senso: gli attuali presidenti delle Province (molti di loro sarebbero "scaduti" a maggio) rimarranno in carica fino al 31 dicembre: una sorta di commissariamento dolce che ha il comprensibile compito di gestire la transizione.

Con una postilla, ultimo dispetto che chi ha scritto la legge ha voluto fare a questo ente che, spesso a ragione,  sebbene con qualche esagerazione, è stato considerato la causa di tutti i mali: il presidente-commissario dovrà lavorare gratis per sette mesi. Zero indennità.

La presidente della Provincia di Bologna Beatrice Draghetti, giustamente, si è risentita: ma come si può pretendere che una persona che ha preso un aspettativa (se dipendente) o sacrificato la propria attività se libero professionista, possa svolgere gratuitamente per sette mesi un lavoro che peraltro è privo di onori e carico di beghe nella gestione di una transizione che semplicissima non sarà?

Mi immagino già le obiezioni: soldi per le Province ne sono già stati spesi anche troppi, si facciano bastare quelli che hanno già preso.

Ma la domanda è: voi lavorereste gratis?

Perché considerando che l'amministratore locale è un lavoro impegnativo, che richiede un mucchio di tempo, il continuo taglio delle indennità a me è sempre sembrata una cosa profondamente ingiusta. Non ingiusta per i "poverini", ingiusta per la collettività.

(Il fatto che ci sia un mucchio di gente che non se li merita non è un obiezione valida - per rispondere al grillino che è in me - perché dobbiamo dare teoricamente per scontato che chi assume democraticamente una carica pubblica se lo meriti o comunque abbia il consenso necessario per farlo).

Di questo passo (anzi per molti versi è già così) fare l'amministratore pubblico, specialmente in una realtà non grande, come un Comune o una Provincia non sarà più conveniente. Io vorrei che chi mi amministra fosse bravo, non povero.

Siccome le bollette le dobbiamo pagare tutti e siccome ognuno è tenuto a farsi legittimamente i propri conti, una carica di amministratore pubblico (pro tempore) è una cosa a cui le migliori professionalità non aspirano più, perché non più vantaggioso (se fatto con onestà, obviously).

Fra pagare bene chi si occupa di politica pretendendo in cambio la massima trasparenza ed efficienza e pagare poco sentendosi poi liberi di dire "tanto sono tutti uguali, tutti fanno schifo", io ho sempre saputo da che parte stare. 

01 aprile 2014

Il momento esatto in cui ci siamo arresi

Un giorno, forse, capiremo qual è stato il momento esatto in cui ci siamo arresi.

Quando abbiamo, cioè, deciso che pretendere "disciplina ed onore" (articolo 54 della Costituzione) ai nostri rappresentanti era fatica sprecata. In quel preciso istante abbiamo, tutti insieme, deciso che era più saggio screditarli a prescindere, far loro dei piccoli dispettucci, togliere qualche spicciolo, segare le gambe a qualche seggiola.

Tutte le volte che si dà una botta alle istituzioni l'opinione pubblica esulta.

La riforma della seconda parte della Costituzione è un passo auspicato da decenni. Avere due camere che fanno esattamente lo stesso lavoro e che, soprattutto, votano entrambe la fiducia al governo, è un meccanismo che non risponde più alle esigenze dell'Italia. Questo però non toglie che le modifiche alla Costituzione vadano fatte con grandissima cura. Perché la Costituzione non contiene solo le regole con le quali funziona il paese, ma contiene anche un programma di governo condiviso, un obiettivo al quale tendere tutti insieme.

Che senso ha avere un Senato dove chi vi siede non ha un'indennità, deve sottrarre tempo ad impegni amministrativi e non conta praticamente niente?

Siamo sicuri che il principio migliore a cui ispirare il governo del territorio sia quello di avere il minor numero possibile di persone che se ne occupano?

Il fatto che alcuni consiglieri regionali abbiano combinato cose indecorose e che il principio fosse sostenuto dalla Lega Nord, può bastare per imprimere allo Stato una svolta neo-centralistica, buttando completamente l'idea del federalismo, sul quale qualche anno fa c'era un consenso vasto e generalizzato per avvicinare la spesa al territorio e responsabilizzare i governi locali?

Diceva Piero Calamandrei che le costituzioni sono anche delle polemiche, "negli articoli delle costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito, è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime".

Nella formulazione della Costituzione entrata in vigore nel 1948 c'è una fortissima polemica contro il fascismo. Nella riforma presentata dal governo c'è una polemica altrettanto forte contro quello che è successo negli ultimi anni, contro le ruberie, contro il malaffare, contro le malversazioni, il malcostume e lo spreco di denaro pubblico. Dei quali però siamo tutti, in quota parte, colpevoli: nell'aver cioè allentato al nostro dovere di pretendere "onore e disciplina", confermando o revocando ai nostri rappresentanti un consenso informato. Una polemica contro noi stessi, a guardar bene. Una polemica contro un comportamento, non contro una forma di governo.

Diceva sempre Piero Calamandrei che nella Costituzione sentiva delle voci lontane. Sentiva le voci di Mazzini, di Cavour, di Garibaldi, di Cattaneo. Il tentativo di Renzi di cambiare la Costituzione io vorrei sostenerlo e difenderlo perché è la direzione che va intrapresa e dietro alle resistenze che sono emerse ci vedo soprattutto la volontà di conservazione di piccoli privilegi di un sistema che ha smesso di funzionare. Ma non vorrei che alle voci che sentiva Calamandrei si aggiungesse quella di Beppe Grillo.

29 marzo 2014

I grillini sono d'accordo con Quit the doner e non lo sanno

Beppe Grillo, dal suo ineffabile blog, ha assegnato il prestigioso riconoscimento di giornalista del giorno a Quit the Doner, blogger intelligente e pungente, che con il Movimento 5 Stelle non è mai stato tenero. La messa all'indice, riguarda, in particolare un passaggio da lui scritto su Linkiesta

Il nostro dare per scontato un certo grado di libertà non ci permette di vedere un fenomeno come il movimento 5 stelle per quello che è realmente: qualcosa di pericoloso per la democrazia e per la libertà di stampa. Seriamente pericoloso.
Il movimento di Grillo si autocelebra come portatore della verità rivelata e assoluta, espressione unica e univoca della volontà popolare, in opposizione a un magma indistinto di affaristi, corrotti uniti dalla volontà di nascondere la suddetta verità per i propri sordidi scopi personali a cui gli elettori possono credere solo nella misura in cui non capiscono. La visione rientra nella più classica delle strutture complottiste-paranoiche, secondo le quali chi “non è con noi” non solo “è contro di noi” ma è anche in malafede e al soldo di qualcun altro. La politica per i cinquestelle non è rappresentanza d’interessi compositi, ma si configura come la dialettica di illuminati vs resto del mondo. La struttura delle sette, degli estremisti religiosi e dei sistemi totalitari.

Con una posizione del genere, ovviamente, si può essere o meno d'accordo.

Se non lo si è, bisognerebbe essere in grado di spiegare perché si ritiene che sia una posizione falsa

Quit the Doner della mia solidarietà per l'odiosa pratica di mettere dei giornalisti all'indice non se ne fa di niente.

Probabilmente sarà più interessato alla implicita e inconsapevole solidarietà dei grillini che, sul blog di Beppe, contestano la sua tesi, con l'abituale periodare colorito, con argomenti che, di fatto, gli danno ragione.

Ecco un'antologia dei commenti

Ammesso che sia giornalista, segnaliamolo all'ordine (affinché non lo aboliamo è li). Poi, seguiamo la ns strada perché più questi coglioni parlano male di noi e più la gente è con noi. Non l'hanno capito e non diciamoglielo

 chi è sto rincoglionito che scrive queste cose?? perchè non ci mette la fima? la faccia?? comunque, ormai si sono accorti di essere cadaveri che camminano, possono solo rimandare le elezioni, ma prima o poi ci andremo a votare!!!!!

Scusate, ma in 56 anni NON ho MAI, dico MAI sentito nemmeno parlare di un giornaletto come LINKIESTA! E poi LINKIESTA DI COSA? Delle BUFFONATE??? Quanti nostri soldi si beccano per scrivere CONTRO il 20-25% degli Italiani che lo pagano "a loro insaputa".Per me possono chiudere ieri sera i battenti che non mi importa assolutamente niente! O è anticostituzionale? Oppure il finanziamento che vi prendere è DEMOCRATICO e COSTITUZIONALE??? Andate a quel paese distruttori dell'onestà!!! 

sperava che lo pubblicassimo sul blog, almeno qualcuno lo legge, solo che nessuno gli crede qui e non perchè pensiamo di essere nel giusto, ma perchè siamo super-sicuri di essere gli unici ad esserlo ahahahh

Questo pseudo-magaricicredediesserlo-giornalista, come riesce a guardarsi allo specchio tutte le mattine? Secondo me lo evita. Come fa incrociare lo sguardo della gente che sa' esattamente come lui tutte le fregnaccie che si racconta da solo? Vergogna e stupratore del nostro splendido intelletto.

Ma vergognati infame....nemmeno di fronte a tanta gente per bene che si suicida riesci ad esprimere un opinione a favore dei cittadini...leccaculoooo sei il nulla, quando toglieremo i finanziamenti ai giornali ne vedremo delle belle 
...Quit...ma perché non lasci stare ? Ma dove vivi ? Chissà chi ti paga ? Non certo il popolo !

Dietro ci sono solo interessi finanziari, è sotto gli occhi di tutti. Questo qui, o è un cretino, o è pagato dalle lobby e dai partiti affiliati alle lobby. Non sono un complottista ne un paranoico ne penso che i 5s detengano lo scettro della verità assoluta. La questione è semplice vogliono arraffare a più non posso sono dei ladri a cui si aggiunge una certa imbecillità politica.
Illuminati contro il resto del mondo. Più chiaro di così....

28 marzo 2014

La frase più significativa della visita di Obama in Italia

Ora che Obama è ripartito, ho deciso qual è, secondo me, la cosa più importante che ha detto durante la sua permanenza a Roma.

Quando al Colosseo ha incontrato Dario Franceschini, il presidente gli avrebbe detto: "Che bello! Fare il ministro della cultura e del turismo in Italia dev'essere il mestiere più bello del mondo!!!" (con tre punti esclamativi.

"Machedavvero?"


Obama ha detto una cosa talmente ovvia che per anni ce ne siamo dimenticati.

Quando Tremonti diceva che con la cultura non si mangia in tanti hanno fatto gli offesi, ma sotto sotto pensavano che avesse ragione lui.

Perché in Italia, è inutile far finta, c'è un pregiudizio anti-culturale radicatissimo, che nel migliore dei casi etichetta i soldi spesi in cultura come "spreco di denari pubblici".

Come se prendersi cura della bellezza non fosse uno dei compiti principali dello stato.

Come se la bellezza non avesse a che fare con tutta la nostra economia.

Io proverei ad accettare il consiglio: a considerare cioè il ministero della cultura e del turismo (indipendentemente da chi lo occupa) come quello più importante di tutta l'attività di governo: più dell'economia, più del lavoro, più dello sviluppo economico. E poi vedere l'effetto che fa.


27 marzo 2014

Contenti che non vi faranno più la multa sulle strisce blu?

La paradossale vicenda delle multe sulle strisce blu ha riportato a galla in maniera plastica una tendenza italianissima: le regole non contano mai in sé, ma solo come un qualcosa da temere in virtù di una sanzione.

Se la sanzione si può evitare, ridurre o contenere il senso della regola non è mai un ostacolo etico per evaderla.

Se una regola non ci piace o la riteniamo palesemente ingiusta (generalmente le regole servono per difendere i più deboli, ma visto che sono fatte dagli uomini ce ne sono di palesemente ingiuste) non ci preoccupiamo mai di impegnarci per cambiarla, ma solo di trovare il modo per aggirarla.

Avere assicurata l'impunità per la violazione, benché parziale, di una regola come quella che si deve pagare per parcheggiare dentro le strisce blu è una piccola prevaricazione. Perché siamo fatti così: preferiamo un piccolo, magari inatteso, privilegio personale rispetto ad un ordine complessivo che ci impone dei doveri, ma ci assicura dei diritti. E in tanti, quanto hanno saputo che sulle strisce blu non si rischiavano le multe, sono stati molto soddisfatti.

19 marzo 2014

Ecco perché sulle Province sta per scoppiare un casino tremendo

"Le Province sono enti inutili, da abolire".

Questa affermazione è diventata, negli ultimi anni, una sorta di mantra della politica italiana sulla quale sembravano tutti d'accordo. Non senza tutta una serie di ragioni valide e logiche: aumentare i centri di potere sul territorio spesso complica le cose e crea tutta una serie di ostacoli burocratici di cui si potrebbe fare a meno. Senza contare il risparmio, più simbolico che risolutivo, degli stipendi di presidenti e assessori.

Ma si tratta di un tema scivolosissimo, sia dal punto di vista pratico sia da quello psicologico, tanto che gli ultimi due governi su questo aspetto ci si sono fatti male.

Oltre agli ovvi motivi di gestione del potere territoriale (tema troppo spesso sottovalutato nelle dinamiche che portano a scelte politiche nazionali) c'è da tener conto di un altro aspetto: se la Provincia (intesa come ente) è considerata poco utile, la provincia (intesa come definizione territoriale) è l'ambito più reale che ci sia nel nostro paese: la storia italiana è tutta fondata sul rapporto fra la città e il suo "contado" e non è un caso se moltissime organizzazioni della società civile (partiti, sindacati, associazioni di categoria) sono fondate proprio su scala provinciale.

Il ddl Delrio pareva aver trovato un buon compromesso: le Province rimangono (anche per non creare vuoti normativi o indigeribili accrocchi geografici) ma decadono i loro organi. Diventano cioè enti di secondo livello, una sorta di associazione dei Comuni governata dai sindaci, ai quale decidere, d'intesa con le Regioni, quali servizi delegare.

Dopo l'approvazione alla Camera, il ddl è impantanato al Senato, dove è ingarbugliato con la legge elettorale, bloccato da una serie di veti incrociati, ostruzionismi e opposizioni più o meno latenti.

Il casino scoppierà perché il tempo stringe.

Entro i primissimi giorni di aprile (la legge parla di 55 giorni) il ministero dell'Interno dovrà convocare le elezioni amministrative, che saranno il 25 maggio, insieme alle Europee. Vanno al voto 4mila Comuni e, se il ddl non sarà approvato in tempo, anche una cinquantina di Province, alle quali, teoricamente, se ne aggiungerebbero un'altra ventina che sono state commissariate negli anni scorsi.

Se, nei prossimi dieci giorni, il Parlamento non approverà il ddl (che quasi inevitabilmente dovrà poi tornare alla Camera per le inevitabili modifiche) il ministero dell'Interno sarebbe teoricamente tenuto a convocare le elezioni anche per le Province.

In realtà sul tema c'è dibattito: la legge di stabilità, infatti, prevede, come successo l'anno scorso, che in attesa di una formale abolizione delle Province dalla Costituzione, le Province che vanno a scadenza siano commissariate. Tuttavia molti Tar hanno già dichiarato illegittimo il commissariamento e alcune Regioni hanno annunciato di ricorrere alla Corte Costituzionale. Il governo e il ministero dell'Interno (guidato dal leader di un partito, il Nuovo Centrodestra, che non è fra i principali fan del ddl Delrio) potrebbero essere, insomma, in imbarazzo a varare un decreto di commissariamento che riguarda circa tre quarti delle Province italiane. Ma ancora più in imbarazzo ad indire un'elezione per enti con una ravvicinatissima data di scadenza.

Se venissero indette le elezioni, insomma, in moltissime contrade d'Italia i partiti saranno costretti a cercare persone disposte a candidarsi ed impegnarsi in una campagna elettorale per una carica che potrebbe durare un anno o anche meno. E convincere i propri elettori a votarli per una cosa che, molto probabilmente, servirà a poco.

Completa il quadretto un'incertezza complessiva che riguarda i Comuni che vanno al voto: dai più grandi (il percorso delle città metropolitane sarà rimandato un'altra volta) ai più piccoli. Quelli sotto i tremila abitanti, a due mesi dalle elezioni, non sanno se avranno un consiglio composto da sei (come dice la legge attuale) o da dieci componenti (come prevede un emendamento al ddl). Quelli sotto i mille abitanti non sanno se avranno o meno la giunta.

Dulcis in fundo, visto che il ddl Delrio è legato a doppio filo all'approvazione della legge elettorale ed alle riforme istituzionali, temi su cui non solo il Governo si è impegnato a tal punto da metterci in palio la propria faccia, ma su cui si fondano anche le alleanze con la maggioranza per l'esecutivo e quella con Forza Italia per le riforme, ecco perché il pericolo più grosso per il Governo, al momento, sembra arrivare ancora una volta dalle innocue, inutili e bistrattate Province.

16 marzo 2014

E' Beppe Maniglia il problema di Bologna? Sì, in un certo senso

Nella assurda discussione seguita alla multa fatta dai vigili urbani di Bologna a Beppe Maniglia è emersa spesso, soprattutto fra i suoi fan, una domanda ricorrente: con tutti i problemi che ci sono a Bologna bisogna proprio prendersela con lui? E' Beppe Maniglia il problema di Bologna? La mia risposta è sì, in un certo senso.

(Breve spiegazione per i non bolognesi): Beppe Maniglia è un bizzarro signore di 71 anni che ha avuto una certa notorietà televisiva in passato quando gonfiava le borse dell'acqua calda fino a farle scoppiare. Da 35 anni si esibisce nei fine settimana in piazza Maggiore, suonando la chitarra con un sound system da 10mila watt montato sulla sua Harley Davidson.

Beppe Maniglia, ovviamente, non è un problema della città. Ma chi lo considera un simbolo di Bologna sì.

C'è stata una certa indignazione per questa multa, dovuta soprattutto al fatto che la sua smodata amplificazione, soprattutto nei giorni in cui le vie centrali di Bologna sono pedonalizzate, di fatto impedisce a qualunque altro musicista di strada nel raggio di 500 metri di suonare. Le regole, quando sono giuste, servono per difendere i più deboli, quella di Beppe Maniglia è una prepotenza che l'autorità pubblica ha il dovere di sanzionare.

Se io andassi in una via del centro con un'amplificazione di quel tipo, mi porterebbero via dopo 5 minuti. Non è solo una questione di disturbo alla quiete pubblica: e lo dice uno che sul disturbo alla quiete pubblica con la musica ha anche una certa esperienza personale.

Ma c'è stata soprattutto una sollevazione di persone che hanno detto: nessuno tocchi Beppe Maniglia, che è un simbolo della città (in linea di massima sono gli stessi che non vogliono che d'estate si facciano i concerti all'aperto). Sono le persone che per abitudine, per pigrizia o per paura, si sono convinte che Beppe Maniglia sia un grande musicista e gli altri busker che popolano la piazza nei fine settimana degli sfigati drogati.

In realtà ogni altro musicista di strada che suona in centro a Bologna è molto più bravo ed interessante di Beppe Maniglia, che suona una chitarra elettrica, sopra orrende basi preregistrate. E il fatto che centinaia di persone si fermino ad ascoltarlo a me pare già un primo problema da risolvere: una città che si fregia del titolo di 'Creativa della musica dell'Unesco', dove Abbado ha fatto nascere l'orchestra Mozart, dove sono passati Dalla, Guccini e tanti altri è un segnale inquietante sulla cultura musicale della gente.

Ma non voglio fare lo snob: il bello della musica di strada è proprio la patchanka: tanti generi, tanti stili, qualcuno più bravo, qualcuno meno. C'è posto per tutti: a patto, però, che nessuno usi la sua prepotenza di decibel per sovrastrare e non far suonare gli altri.

Quindi, diciamolo una volta per tutte, Beppe Maniglia non è e non deve essere un simbolo di Bologna. E' soltanto un simbolo di prepotenza, arroganza, sciatteria e cattiva musica. Tutto quello, ovvero, che Bologna non deve essere nell'immagine che deve dare ai suoi cittadini e a chi arriva da fuori.

Detto questo sulle strade di Bologna deve esserci posto anche per Beppe Maniglia. Così i nostalgici della inesistente 'Bologna che fu' potranno ascoltarlo. Ma alle stese condizioni degli altri, così, magari, quegli stessi nostalgici, non più rincoglioniti dai decibel e dai pregiudizi, potranno anche rendersi conto che a 50 metri ci sono tre ragazzini che fanno musica infinitamente migliore.

A quel punto, se qualcuno vorrà cacciare Beppe Maniglia (come qualunque altro musicista di strada) io andrò ad incatenarmi con lui, per difendere il suo spazio in cui fare la sua pessima musica.

13 marzo 2014

Furti di macchinine. Succede a Pistoia: se non ci siete mai stati andateci

C'è una piccola città, che non ama far parlare di sé, dove ogni tanto succedono cose bizzarre, ma piuttosto esemplificative: è Pistoia, se non ci siete mai stati andateci, vi sorprenderà.

Succede che l'ex sindaco, Renzo Berti, vada al supermercato con la famiglia. Il figlio vuole che il babbo gli compri una confezione di macchine (9 euro). Il babbo non vuole, perché non è che ai bambini si possano sempre dare tutte vinte. Il piccolo, facendo il suo dovere di bambino, pianta un capriccio e cerca un sistema per fregarlo. Apre la confezione di macchinine e ne infila una nella tasca del babbo. Lui non se ne accorge, gli addetti alla sicurezza del supermercato sì.

Quando va alla cassa gli fanno notare che nella tasca della giacca ha una macchina "rubata". Con l'imbarazzo di un genitore di un bambino che ha appena fatto una marachella in un luogo pubblico, si scusa mille volte e paga l'intera confezione di macchine. Il supermercato, ovviamente, non denuncia il fatto alle autorità, anche perché non ha avuto un danno, visto che il giocattolo è stato regolarmente pagato.

Succede che un blog scrive della faccenda (senza fare il nome del protagonista) e succede che per la procura di Pistoia si tratti di una 'notizia criminis' di tale importanza da rendersi necessaria un'inchiesta ed un'incriminazione di ufficio per furto aggravato (reato perseguibile anche senza querela da parte del danneggiato).

Un fatto piccolo, che però spiega abbastanza bene come funziona la giustizia italiana.

Verranno spesi centinaia, forse migliaia di euro di denaro pubblico, fra notifiche, udienze, tempo impiegato da parte dei funzionari statali per perseguire un reato che le stesse vittime ritengono di non aver subito.

E forse qualcuno, probabilmente, dovrebbe spiegare che in una città talmente tranquilla dove non succede mai niente non c'erano casi più importanti ai quali dedicare tempo e risorse pubbliche.

11 marzo 2014

Renzi ricompensa gli elettori del Pd

Con l'annunciato taglio dell'Irpef per andare ad alleggerire il cuneo fiscale, Matteo Renzi ha annunciato di fare una cosa che il centrosinistra italiano, nelle sue esperienze di governo, praticamente non ha mai fatto: premiare i suoi elettori.




Il taglio dell'Irpef, secondo lo schema che è stato anticipato (poi, ovviamente, saranno da vedere ed analizzare con attenzione regole, modalità e, soprattutto, coperture) segna però un primo dato di fatto molto interessante. Il taglio, per come è stato concepito, andrebbe infatti a beneficio di chi ha una busta paga (e quindi un lavoratore dipendente) inferiore ai 1.500-1.600 euro. Sono tagliati fuori i pensionati, i commercianti, gli artigiani e i lavoratori cosiddetti atipici. Oltre che i lavoratori dipendenti più facoltosi e quelli che guadagnano talmente poco da non pagare, di fatto, l'Irpef.

Si tratta, in sostanza, di un atto assunto nell'interesse della constituency del Partito Democratico: impiegati, operai, insegnanti, dipendenti pubblici, ovvero quella larga fetta di Italia che non si trova in una condizione di povertà, ma che negli ultimi anni ha visto deteriorarsi la propria situazione economica: se dieci anni fa facevano parte della medio-piccola borghesia adesso sono, spesso, poco sopra il livello di povertà. Che non possono beneficiare di rendite particolari e che non hanno mai (anche perché non ne avevano possibilità) attinto all'integrazione dell'elusione fiscale.

Un blocco sociale che, in larga maggioranza, in questi ultimi anni si è affidata al Partito Democratico. Ma che potrebbe, in un futuro non lontano, non farlo più se non vedesse un segnale concreto da parte della forza politica che ha votato negli ultimi anni.


05 marzo 2014

Putin, Vecchioni, Trapattoni e il nobel: ecco perché non è una cosa seria

La candidatura di Putin al nobel per la pace è una roba simile alla candidatura di Vecchioni (con tutto il rispetto per Vecchioni).

Ci sono migliaia di persone (compresi tutti i parlamentari di tutte le nazioni) che possono candidare qualcuno al nobel per la pace. Fino ad ora gli amici scandinavi le tenevano segrete, però poi succedeva che qualcuno comunicava la candidatura che aveva avanzato e quindi le voci impazzivano incontrollabili.

L'operazione trasparenza, però, ha pro e contro.

Quindi non è vero che il nobel ha candidato Putin. E' vero che, probabilmente, qualche parlamentare russo, cortigiano del nostro, abbia improvvidamente fatto il nome di Putin, come avrebbe potuto fare il nome di chiunque altro.

Un po', insomma, come quei parlamentari che al primo scrutinio per l'elezione del presidente della Repubblica votano per Giovanni Trapattoni.

Quando daranno il nobel per la pace a Putin andiamo tutti insieme ad incatenarci a Oslo. Fino ad allora ridiamoci sopra che è meglio.