28 novembre 2013

Foto messe lì a caso

Nei giornali italiani le foto spesso sono considerate un orpello, un abbellimento, un qualcosa da mettere lì a caso tanto per spezzare un po' le colate di inchiostro. Raramente c'è un'idea, una costruzione, un uso della foto per raccontare una storia o creare una suggestione. A cominciare dalle prime pagine.

Il confronto con i giornali stranieri è impietoso. E lo è ancora di più oggi, giorno in cui molti giornali stranieri si sono occupati di un argomento di politica italiana come la decadenza di Berlusconi.

Scorrendo le prime pagine dei giornali italiani su una notizia molto importante (e anche attesa, e che, quindi, in qualche modo poteva essere preparata) non ce n'è una che rimanga, che faccia storia, che colpisca. Questo perché la scelta delle foto è stata fatta in maniera un po' trascurata, privilegiando, probabilmente, le analisi e i commenti.

All'estero, invece, c'è chi fa queste cose

(International New York Times)

(El Pais, Spagna)

(El Periodico, Spagna)

(La Vanguardia, Spagna)

(Kleine Zeitung, Austria)




27 novembre 2013

Il giorno della decadenza: gli highlights

Tutto quello che bisogna ricordarsi di questa giornata.

(Suggerimenti e indicazioni per aggiornare gli highlights sono ben accetti)


25 novembre 2013

Tentazioni svizzere

Gli svizzeri hanno detto no. Non è passato il referendum che prevedeva che un manager non potesse guadagnare in un mese più di quello che l'operaio o l'impiegato meno pagato della sua azienda guadagna in un anno.

In compenso c'è già chi in Italia ha pensato che potesse essere una buona idea importare il format. 1:12 lo chiamano i giovani socialisti svizzeri. Ci sono deputati che già si sono messi in moto per vedere come provare a far qualcosa di simile anche qua: d'altra parte per ricette di questo tipo da queste parti il terreno è fertile

Che la sperequazione fra gli stipendi sia un problema è fuori di dubbio. Negli ultimi trenta-quaranta anni la forbice fra quelli più alti e quelli più bassi si è ampliata a dismisura producendo ineguaglianza.

Ma la ricetta svizzera che un pezzo di sinistra italiana pensa di importare ha poco senso. E' un vizio antico che ogni tanto riaffiora: quando non si riesce a far star meglio i poveri si prova a far stare un po' peggio anche i ricchi. Così i poveri saranno sempre poveri, ma un po' meno incazzati.

L'applicazione pratica del principio avrebbe poi una serie di complicazioni pratiche imbarazzanti, al di là del rischio concreto di perdere la possibilità di ingaggiare i migliori e della tentazione di assumere in forme ancora più precarie i dipendenti meno pagati per alzare artificiosamente l'asticella degli stipendi.

Forse, quindi, è meglio (e sicuramente è molto più di sinistra) cercare di capire come far guadagnare di più chi guadagna poco, piuttosto che far guadagnare di meno chi guadagna troppo.

23 novembre 2013

Musica per sopravvivere al ritorno di Forza Italia

Chi non c'era si è perso un mucchio di bella musica.
E anche un po' di musica brutta (va detto, per completezza di informazione)


21 novembre 2013

La memoria del pallone

Qualche anno fa, in occasione dei mondiali del Sudafrica, scrissi un po' di storie per un altro blog, le chiamai la memoria del pallone: storie che hanno a che fare con il calcio, ma non solo. Incrociano quelle di drammi, tragedie, dittature, momenti importanti della storia del novecento. Il calcio c'entra sempre.

JORGE CARRASCOSA, IL LUPO CHE DISSE NO AI COLONNELLI


Chiudete gli occhi e immaginate: alzare la coppa del mondo con la maglia della propria nazionale davanti al proprio pubblico. Chi da bambino non ha mai fatto un sogno così? Un sogno, appunto. Si sarebbe disposti a tutto per realizzarlo, A tutto, forse, o quasi. Perché c'è anche chi, a quel sogno, ha deciso di rinunciare, perché non era giusto e perché non ne valeva la pena.





Un difensore, due difensori, tre difensori, tac, tac, tac, poi anche il portiere, tac. Eccola là, forse una delle serpentine più belle della storia del calcio. Anche se non l'ha vista quasi nessuno. O meglio, quelli che l'hanno vista, per un motivo o per un altro, hanno preferito non raccontarla.




Che brutto modo per inizarsi al calcio. Forse ci sono persone più titolate di me per parlare dell'Heysel: feriti, superstiti, testimoni. O anche chi, davanti alla televisione, aveva un po' più d'esperienza e di cervello per capire quello che stava succedendo.




Non credo che mai così tanta gente tutta insieme abbia pianto per una partita di calcio. Forse è ingiusto parlare di tragedia visto che non è morto nessuno (a parte qualche decina di suicidi riconducibili all'episodio), ma quello che è successo il 16 luglio 1950 davanti a 180mila spettatori rimane una delle pagine più cariche di tristezza della storia del calcio di tutti i tempi.




Ci sono degli episodi, nella storia del secondo novecento, che tutti si ricordano dove si trovavano quando accaddero. Chi è nato nella Germania Est spaccata dal muro ricorda alla perfezione dove si trovava il 22 giugno 1974, quando al Volsparkstadium di Amburgo Jurgen Sparwasser tirò una pallonata contro il muro di Berlino.





Provate a prendere dei bambini, tutti di razze, colori, nazionalità e linge diverse e date loro un pallone. Fin dal primo rimbalzo, dal primo tiro, dal primo passaggio, parleranno una sola lingua, avranno una razza sola, non ci saranno più differenze fra loro se non quelle dettate dal campo, fra chi ha i piedi buoni e chi non ce li ha.




IL CALCIO STORICO FIORENTINO, L'INVENZIONE DELLA TRADIZIONE

C'è chi pensa che il calcio, o almeno un antenato del calcio, sia nato a Firenze, come dimostrerebbe il calcio storico fiorentino, ovvero le partite rievocative che nel giugno di ogni anno si svolgono, ordine pubblico permettendo, in piazza Santa Croce, mandando in visibilio i turisti giapponesi e un nugolo di iper appassionati locali.

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ARPAD WEISZ: IL PROFETA DEL CALCIO EUROPEO MORTO AD AUSCHWITZ

Era l'allenatore più vincente di tutti gli anni Trenta: un po' come Mourinho e Capello messi insieme, però molto più giovane. Un mito indiscusso del pallone, una gloria che aveva inventato un modo di giocare non bellissimo, ma concreto e vincente. La follia nazista non ne ebbe pietà.

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IRAN, DOVE IL CALCIO FA PAURA AL POTERE COME LA RIVOLUZIONE

In Iran il calcio fa paura al potere. Forse più della rivoluzione, forse più della politica, forse più delle manifestazioni popolari. Perché è un elemento che riesce ad unificare il popolo, a dargli un anelito di libertà e una ribalta mediatica mondiale.

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ZVONIMIR BOBAN, LE LACRIME DI UN CAPO ZINGARO

Un vero capo zingaro non dovrebbe piangere. Mai.
Tranne che in un caso: se a 20 anni inneschi da solo una guerra contro il mondo e a 30 la vinci. Allora le lacrime si possono anche perdonare.

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VITTORIO POZZO: IL CT SENZA ETICHETTE CHE IL CALCIO HA DIMENTICATO

Fascista, antifascista, monarchico, nazionalista, militarista? Difficile definire con un aggettivo secco la complessa personalità del protagonista assoluto del ciclo più vincente della nazionale italiana, gli anni Trenta dai due mondiali e dall'oro olimpico che sotto i vessili dell'Italia fascista portano la firma incancellabile di Vittorio Pozzo.

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Aleksey Klimenko, che vinse la partita con la morte


Un difensore, due difensori, tre difensori, tac, tac, tac, poi anche il portiere, tac. Eccola là, forse una delle serpentine piu' belle della storia del calcio. Anche se non l'ha vista quasi nessuno. O meglio, quelli che l'hanno vista, per un motivo o per un altro hanno preferito non raccontarla.

E anche per questo che si è un po' persa la memoria di Aleksey Klimenko, formidabile stella della Dinamo Kiev, l'uomo che con un pallone fra i piedi si è preso gioco della morte, l'uomo che con quella serpentina la morte l'ha trovata. Quelli che aveva dribblato erano meno ironici di lui, gli piantarono una scarica di mitra nella schiena e lo buttarono giù dal burrone ucraino di Babij-Jar, dove durante la seconda guerra mondiale furono gettate, più o meno, 100mila persone.

E' il 9 agosto 1942 e a Kiev e' una bellissima giornata di sole. Quel giocatore tracagnotto e un po' sgraziato balla con il pallone, salta come birilli tre difensori grandi, grossi e biondi, prende in giro il portiere, arriva sulla linea di porta e si ferma e si volta. Guarda il pubblico assiepato nello stadio Zenit di Kiev e anziche' appoggiare il piu' semplice dei gol rispedisce il pallone con un calcione verso la meta' campo. La partita finisce lì, e anche la storia della Start, una squadra che cercava la libertà, ma trovò la morte su un campo da calcio.

Ma andiamo con ordine. E' il settembre del 1941 e per le strade di Kiev passeggia pasciuto Joisf Kordik, mezzo ucraino mezzo tedesco, di professione panettiere. Personaggio di dubbia moralità, incline al compromesso e con uno spiccato senso degli affari. Buon commerciante, lo chiamano gli ufficiali delle Ss che stanno occupando la capitale ucraina, viscido collaborazionista lo definisce la maggior parte dei suoi concittadini nel vederlo non dico arricchirsi, ma campare bene in una città dove la quasi totalità della popolazione è ridotta alla fame e provata dagli stenti dei campi di lavoro.

Non fanno eccezione i calciatori della Dinamo e della Lokomotiv Kiev. E quando il nostro Josif incontra per strada Nikolaj Trusevich, portiere della Dinamo, un monumento vivente, coperto di stracci, divorato dalla fame, il suo cuore di tifoso cede a quello del mercante: lo ripulisce, lo sfama, gli dà un lavoro clandestino nella sua panetteria. Ad averci uno così in casa gli balza in testa un'idea, mettere insieme una squadra di calcio, per strappare alla miseria più nera le glorie del calcio nazionale. E così ne scova undici, li assume tutti nella sua panetteria e mette in piedi la Start.

Ma visto che è inutile avere una squadra così e non farla giocare, il nostro improvvisato impresario calcistico va dai suoi amici nazisti e li convince a metter su un mini campionato. Nella Kiev del 1942 organizzare squadre di calcio non è semplicissimo, ma alle divise grigie pare proprio una buona idea: la gente, distrutta dalla fame e dagli stenti con un montante odio antitedesco, avrà qualcosa con cui distrarsi.

Al campionato ucraino si iscrivono sei squadre: tre messe insieme alla meglio fra tedeschi e alleati, prigionieri rumeni e soldataglie ungheresi, una, fra i collaborazionisti ucraini, la mitica Start e la fortissima Flakelf, la squadra della Luftwaffe, ovvero l'aviazione tedesca.

Il campionato comincia. I giocatori della Start saranno anche debilitati ed emaciati, ma sono pur sempre dei campioni ed asfaltano senza problemi tutte le avversarie. La gente comincia ad appassionarsi ed a vedere in questa squadra in maglia rossa un sogno di libertà.

Fino a che, il 6 agosto 1942 non arriva la partita con la Flakelf. I gerarchi nazisti sono sicuri che i ragazzoni dell'aviazione non possano perdere contro i malnutriti ribelli ucraini, ma si sbagliano di grosso: 5-1 e a casa.

Ma la forza d'occupazione, i dominatori dell'Ucraina, a perdere non ci stanno e di lì a tre giorni, domenica 9 agosto 1942, fissano la gara di ritorno, cambiano in corsa regole ed etichetta, che tanto siamo in guerra. La Start (a cui oggi e' intitolato quello stadio), prima della partita, riceve la visita di un ufficiale delle Ss che intima loro di comportarsi da buoni sparring partner e lasciar vincere i calciatori in divisa. E quando Klimenko e compagni si ritrovano quello stesso ufficiale ad arbitrare la partita in uno stadio quasi tutto occupato dai tedeschi capiscono che c'è qualcosa di pericoloso nell'aria.

Avrebbero potuto perdere con onore e portarsi a casa la pelle. Ma erano tutti troppo ucraini, troppo comunisti e troppo innamorati del pallone per permettere a quella squadra senza immaginazione e senza talento di battere la leggendaria Start. Andarono in vantaggio con tre gol uno dietro l'altro, ma tale era la pressione che, con l'aiuto dell'arbitro, i nazi riuscirono a pareggiare.

Nella ripresa la Start segna altre due volte. E poco importa se nell'intervallo un altro ufficiale tedesco, ancora meno accomodante, avesse fatto capire le conseguenze se la Luftwaffe avesse perso: la gente di Kiev li amava, sperava in loro e, con loro, in un mondo migliore.

Quando mancano dieci minuti alla fine Klimenko ci mette la sua firma, con q
uella serpentina e quell'affronto che fanno capire all'arbitro che è meglio chiudere lì quella partita. Che intanto la Start, nonostante le sofferenze e la malnutrizione della guerra, su quel campo non avrebbe perso mai.

Qualche giorno dopo agenti della Gestapo li arrestarono, li portarono al famigerato campo di Siretz e li sottoposero ad indicibili torture. E nel gennaio del 1943, dopo un'azione dei partigiani, decisero di fucilarne un po' per rappresaglia. Morirono cosi' la talentuosa ala Kuzmenko, il portierone Trusevich e il grande Aleksey Klimenko.

Solo molti anni dopo, i pochi sopravvissuti, troveranno il coraggio di raccontare quella storia, temendo di essere accusati di collaborazionismo solo per aver giocato quella partita di calcio contro la morte per amore della la libertà.

La strage dell'Heysel, il mio calcio è cominciato lì


Che brutto modo per iniziarsi al calcio. Forse ci sono persone più titolate di me per parlare dell'Heysel: feriti, superstiti, testimoni. O anche chi, davanti alla televisione, aveva un po' più d'esperienza o di cervello per capire quello che stava succedendo: il 29 maggio 1985, prima di una finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool morirono 39 tifosi, quasi tutti italiani. Vittime di una violenza cieca e delirante e di un capolavoro di inefficienza e disorganizzazione.

Io avevo sei anni, e la tragedia dell'Heysel è il mio primo ricordo 'pubblico', che tiene insieme sia il calcio sia una grande sciagura. Da quando esiste la tv, diciamo da quelli che oggi hanno poco meno di sessant'anni in poi, ognuno ha un primo ricordo di un evento 'pubblico': chi si ricorda l'uccisione di Kennedy, chi lo sbarco sulla luna, chi l'omicidio di Moro o di Falcone. Provate a pensarci. Ognuno ha il suo e quasi sempre e' uno di quei fatti che hanno, nel bene o nel male, segnato un'epoca.

E questo non perché i bambini abbiano un maggior 'senso della notizia', ma perché di fronte alla tv, anche se non si capisce bene quello che succede, si percepisce uno stato di tensione di chi commenta quelle immagini e di chi ci sta accanto. Ci si affaccia timidamente, per la prima volta, al mondo degli adulti. Si prova a capire e a chiedere il perché di cose che spesso un perché' non ce l'hanno.

Come quella drammatica notte di maggio a Bruxelles. Era una partita, ok, una partita. La partita dell'anno, forse. La finale della coppa dei campioni. Il calcio, in qualche modo, nella mia vita c'era già entrato, l'avevo già visto, avevo già provato a rincorrere un pallone. Ma tutta quella gente, quel casino, quei morti, quei feriti, che diavolo potevano entrarci con il pallone?

La Juventus di Boniek e Platini, allenata da Trapattoni, affrontava in finale il Liverpool che era arrivata fin li' strapazzando le avversarie. La Uefa aveva scelto per giocare la partita dell'anno uno stadio vergognoso, l'Heysel, appunto, che adesso e' stato rifatto e intitolato a re Baldovino. Muretti cadenti, strutture fatiscenti, recinzioni pericolanti, mancanza di vie d'uscita, un disastro.

Ma non basta. L'organizzazione divide lo stadio in settori: da una parte i temibili, ferocissimi hooligans del Liverpool, spauracchio d'Inghilterra e rifugio alcolico e disperato di tutti gli sfigati della Gran Bretagna tatcheriana dei ruggenti eighties e del s'arrangi chi può. Dall'altra gli ultras bianconeri. Qualche violento c'era anche li', chiaro. Succede peroò che una parte consistente di tifosi, quelli non organizzati, quindi quelli più tranquilli, padri di famiglia, gente di mezz'età, trovi posto in un settore vicino alla gabbia degli hooligans di Liverpool, nel famigerato 'settore Z'. Primo capolavoro dei belgi.

Gli hooligans hanno tutto il giorno per riempirsi di birra, per fare casino nel centro di Bruxelles, sottovalutati dalla polizia belga. Quando entrano allo stadio sono in un altro mondo e si trovano accanto un gruppo di tifosi avversari, separati da un paio di vigili urbani e da una rete da pollaio che alla prima carica va giù. L'orda si abbatte nel settore Z, gli occupanti, ovviamente, non rispondo alla carica e si ritirano da una parte, crolla un muro e chi cerca rifugio nel terreno di gioco viene caricato dalla polizia che intervenne a sedare i facinorosi solo mezz'ora dopo: secondo capolavoro dei belgi.

Ma la partita si deve giocare. Perché? Boh. ''Al 99,9 per cento - ha raccontato Zibi Boniek - sapevamo tutto: dei morti, della dinamica, della cappa esplosiva che gravava sullo stadio. Noi non volevamo giocare. E il Liverpool neppure. Ce lo ordinarono. Ci dissero che, se non fossimo scesi in campo, sarebbe stato peggio. I telefonini non esistevano, e molti degli juventini sugli spalti, loro sì, non avevano idea di quante fossero le persone morte ammazzate nel settore Z. Uno dell'Uefa mi fece: se vi rifiutate, lo impareranno''.

Partita, ovviamente bruttissima. Vince la Juve con un rigore fischiato a Boniek per un fallo due metri fuori area. Trasforma Michel Platini, all'epoca non pasciuto capoccia del calcio, ma poeta del pallone, che poi si lascerà anche andare ad una contestatissima esultanza. Si è giocato - si disse - per evitare la guerra civile, ma alla fine ci saranno 39 morti e 600 feriti.

Gli inglesi saranno squalificati per cinque anni dalle Coppe Europee, su proposta del governo di Londra. Gli hooligans ne combineranno altre, soprattutto all'estero, ma l'Inghilterra dichiarerà loro guerra: pene severissime, telecamere a circuito chiuso, violenti sbattuti in galera, stadi completamente rifatti. Adesso gli stadi inglesi sono posti tranquilli, dove le famiglie portano i bambini. E quando nei templi del calcio italiano, nonostante tutte le leggi che sono state varate, si sentono scoppiare le bombe, non rimane che invidiare uno Stato che aveva problemi infinitamente più grossi e che li ha risolti.

Il calcio, senza morti, senza feriti, senza scontri, senza armi è molto più bello. O almeno questa era la conclusione a cui credeva di esser giunto quel bambino che dall'Heysel, attraverso la tv, si era affacciato al mondo degli adulti.

Il calcio storico fiorentino, l'invenzione della tradizione

   Ma il calcio, chi l'ha inventato? Credo che oggi nessuno abbia davvero più un dubbio sul fatto che la patria del nostro amato gioco sia l'Inghilterra. Il calcio, oltre che uno sport, è un fenomeno sociale contemporaneo europeo, che cresce e che si sviluppa a braccetto con la rivoluzione industriale: l'Inghilterra li esporta entrambi, di pari passo.

   Eppure c'è chi pensa che il calcio, o almeno un antenato del calcio, sia nato a Firenze, come dimostrerebbe il calcio storico fiorentino, ovvero le partite rievocative che nel giugno di ogni anno si svolgono, ordine pubblico permettendo, in piazza Santa Croce, mandando in visibilio i turisti americani e giapponesi e un nugolo di iper appassionati locali.

   Il calcio storico fiorentino, però, non è nient'altro che l'invenzione di una tradizione, che ha radici storiche fragilissime: la sua storia ci dice poco o niente su come si sia sviluppato il gioco del pallone, ci dice molto di più, sul rapporto che fra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Trenta del Novecento si era sviluppato fra un fascismo che cercava di normalizzarsi e di attirare consenso e le tradizioni popolari italiane che hanno permanenze spesso secolari e che mal si conciliano con politicizzazioni forzate, di ogni tipo.

   Il fascismo, fin dalla sua nascita, ha una vocazione nazionalista e unificatrice. Una tendenza che mal si concilia con i mille campanili, i mille particolarismi, le mille usanze di cui è ancora fatta l'Italia e che in quegli anni era molto più accentuata: non esisteva la televisione, il tasso d'istruzione era molto basso e nelle campagne, soprattutto nel Meridione, la permeabilità della politica era molto bassa.

   Gli storici che hanno studiato la mentalità degli italiani sotto il fascismo, come Francesco Iovine, ci raccontano, ad esempio, che l'adesione popolare alle feste nazionali fasciste era all'insegna della freddezza, quando non alla totale estraneità della gente che si riconosceva, invece, nelle feste religiose, in quelle del Santo Patrono, nelle feste dell'Uva, del Grano, del Maggio, riti e tradizioni di lunghissima durata.

   Il fascismo, dopo un primo tentativo di stroncare queste feste a vantaggio di quelle nazionali, capisce che deve trovare un compromesso: le feste del Santo Patrono non si possono eliminare e la tendenza unificatrice, dal punto di vista del consenso, non paga. Per questo decide di far rientrare il localismo dalla finestra , cercando di smussare, ove possibile, gli aspetti sgraditi delle feste tradizionali e cercando di creare un folclore con richiami alla tradizione, ma dagli accenti smaccatamente fascisti.

   E' in questo contesto che il fascismo capisce che deve impegnarsi per reinventare la tradizione, passaggio fondamentale per non perdere di vista il contatto con la periferia. E se l'operazione di mettere in camicia nera il Palio di Siena riesce poco (il Palio ha una tradizione antichissima, ritmi immutabili, appartenenze rigorose, stilemi politici che sfuggono completamente ad una concezione moderna), in altre città il gioco riesce con un certo successo.

   Nascono così in questi anni la regata storica delle gondole a Venezia, il gioco del Ponte a Pisa (inventato di sana pianta nel 1935), la giostra del Saracino ad Arezzo (basato su un documento chissà come ritrovato nella biblioteca cittadina).

   A Firenze si compie la medesima operazione. Ne è il protagonista indiscusso Alessandro Pavolini, ras della città, nonché uno dei politici più intelligenti della giovane classe dirigente fascista. Sarebbe stato lui stesso a scrivere, di suo pugno, il regolamento del gioco.

   Oggettivamente l'idea di Pavolini è piuttosto brillante. Firenze è una città carica di storia e i secoli precedenti sono stati raccontati per filo e per segno da decine di cronisti che hanno annotato praticamente tutto. Con il calcio storico si va a pescare in una cultura che è antica e modernissima al tempo stesso (la Fiorentina e' nata nel 1926 e il calcio si sta diffondendo in maniera rapidissima e travolgente). E in più si riesce a far passare un messaggio nazionalistico e xenofobo: ''ma quali inglesi? Il calcio è nato in Italia, il calcio è nato a Firenze''. Un piccolo capolavoro.

   Ci si mette quindi alla ricerca di uno straccio di documentazione: giochi con la palla, nel Medioevo, si svolgevano in tutta Europa. I fiorentini, grandi mercanti e viaggiatori, importano una di queste usanze da chissà quale latitudine, ma probabilmente solo sul finire del Quattrocento il gioco si diffonde, in qualche modo, a Firenze.

   La scintilla a cui i solerti ricercatori fascisti si attaccano e' una testimonianza cinquecentesca: nel 1530, quando la città era assediata dalle truppe di Carlo V che di li' a poco metteranno per sempre fine alle libertà repubblicane, si racconta che i fiorentini, in segno di scherno e noncuranza, si misero a giocare a palla in piazza Santa Croce di fronte agli assedianti.

   Tanto' basto, nel quarto centenario della ricorrenza, per metter su una rievocazione che si è trascinata fino ai giorni nostri. Divisa la città in quattro quartieri senza né identità né appartenenza, le partite dei calcianti, con un regolamento più simile al rugby che al calcio, si sono spesso trasformate in zuffe, risse e regolamenti di conti, tanto da far sospendere i tornei nel 2007 e nel 2008 ed apportare pesanti modifiche al regolamento per costringere i giocatori a tenere comportamenti più urbani.

   Un gioco, insomma, che può essere anche divertente, ma che con la Firenze del Cinquecento, con l'assedio di Carlo V, con il calcio inglese dell'Ottocento e con i suoi più illustri eredi del ventunesimo secolo non ha veramente quasi niente a che fare.

Vittorio Pozzo, il ct senza etichette che il calcio ha dimenticato

Fascista, antifascista, monarchico, nazionalista, militarista? Difficile definire con un aggettivo secco la complessa personalita' del protagonista assoluto del ciclo piu' vincente della nazionale italiana, gli anni Trenta dai due mondiali e dall'oro olimpico che sotto i vessilli dell'Italia fascista portano la firma indelebile di Vittorio Pozzo.

   La retorica fascista, e poi quella antifascista, ha cercato di mettere sul commissario tecnico della nazionale delle etichette semplificative: Pozzo uomo dei gerarchi, Pozzo repubblichino, Pozzo antifascista a servizio degli alleati. Benché il lato dei suoi rapporti con il potere fascista sia uno dei punti più oscuri della biografia di questo grande allenatore, la personalità del tecnico due volte campione del mondo, forse un po' dimenticato proprio per la difficoltà di iscriverlo in una precisa categoria, è da ricercare nel suo più grande paradosso: allenatore modernissimo per la sua preparazione e le sue intuizioni tattiche, uomo all'antica, quasi risorgimentale nel suo nazionalismo e nel suo attaccamento a valori di cui il fascismo indubbiamente si è servito per andare al potere e per rimanerci per vent'anni.

   Intendiamoci: non è che nell'Italia fascista, che aveva capito benissimo la funzione del calcio come aggregatore di masse e strumento di glorificazione del regime, si potesse fare il ct della nazionale manifestando apertamente simpatie antifasciste. Pozzo aderì, forse suo malgrado ma sicuramente senza opporsi né farsi troppe domande, a quelle simbologie di cui lo sport fascista era intriso: il saluto romano prima della partita, 'Giovinezza' cantato insieme agli inni nazionali, perfino la storica partita dell'Italia in completo nero, nei quarti di finale dei mondiali 1938 contro la Francia a Parigi, diventata quasi il simbolo del calcio fascista.

   Tra le qualità di Pozzo, oltre ad una grande preparazione tattica maturata in gioventù in giro per l'Europa, c'erano anche diplomazia e astuzia, ingredienti fondamentali del suo successo. Che gli sono servite anche per tenere le sue squadre sempre in perfetto equilibrio sul sottilissimo crinale fra sport e politica.

   Se pure Pozzo, come affermò nella sua biografia uscita negli anni Sessanta, non fu mai iscritto al partito fascista, fu raramente messo sotto pressione dal regime e le sue tecniche motivazionali nazionaliste e militariste sono una spia di quanto le idee del regime avessero permeato il calcio per poter giungere alle masse. E la stampa dell'epoca contribuì a crearne una mitologia, tanto che, a guerra finita, Pozzo fu di fatto allontanato dalla nazionale in quanto ritenuto troppo compromesso con il fascismo.

   Dirigente della Pirelli, tenente degli alpini nella prima guerra mondiale, profondo conoscitore della tattica e delle dinamiche manageriali del calcio, Pozzo divenne per la prima volta commissario unico della nazionale nel 1912: e lo fu a più riprese per tutti gli anni dieci e venti, da solo o in compagnia.

   Il suo periodo d'oro cominciò pero' nel 1929 quando il capo del calcio fascista, Leandro Arpinati, lo chiamo nuovamente a dirigere la nazionale. Nel giro di un decennio Pozzo vinse tutto: due coppe Internazionali (l'antenato del campionato europeo) e soprattutto due campionati del mondo: il primo, giocato in casa, davanti ai gerarchi estasiati, nel 1934. Quattro anni dopo colse il bis: impresa mai riuscita a nessun allenatore e solamente ad un'altra squadra, il Brasile di Pelé nel 1958 e 1962. In mezzo il sigillo dell'unica medaglia d'oro olimpica del calcio italiano, nella Germania nazista del 1936.

   Applicatore di schemi senza esserne schiavo per non sacrificare troppo l'estro dei suoi giocatori più dotati (fra cui Giuseppe Meazza), Pozzo introdusse anche alcuni aspetti che i ct e gli allenatori in generale seguono ancora oggi, come i ritiri prima di una competizione. Pozzo pretendeva che gli alloggi fossero spartani, come le caserme per gli alpini. E si racconta che per prepare le partite parlasse ai suoi giocatori della resistenza del Piave.

   L'Italia fascista si limitava a tollerarlo perche', pur non avendo aderito con entusiasmo al regime fascista, era comunque un grande vincente. L'Italia postfascista non lo ha celebrato come avrebbe meritato (vi viene in mente uno stadio importante a lui intitolato?) perché, pur essendo un grande vincente, era compromesso con il regime fascista.

   Pozzo, come ha ricordato Giorgio Bocca era un fascista di regime, ovvero ''uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti''. E in un paese dove siamo abituati a dare etichette a tutti per non doverci sforzare di capire le cose, due mondiali e una medaglia d'oro olimpica sono finiti un po' fra ciò che è più comodo non ricordare troppo.

Iran, dove il calcio fa paura al potere come la rivoluzione

   In Iran il calcio fa paura al potere. Forse più della rivoluzione, forse più della politica, forse più delle manifestazioni popolari. Perché è un elemento che riesce ad unificare il popolo, a dargli un anelito di libertà e una ribalta mediatica mondiale.

   L'ultimo caso è avvenuto il 17 giugno del 2009: quando a Seul la nazionale iraniana si giocava contro la Corea del Sud un biglietto per i mondiali in Sudafrica. L'1-1 finale ha qualificato la Corea e mortificato le speranze iraniane, ma quella partita è rimasta nell'immaginario collettivo non solo nazionale e quelle immagini hanno fatto il giro del mondo per un altro motivo.

   Pochi giorni prima, in Iran, si erano svolte le elezioni presidenziali. A contendere la leadership al presidente uscente Ahmadinejad c'era Mir-Hosein Mussavi, primo ministro negli anni ottanta, che si candida con una piattaforma più liberale e democratica. Il 12 giugno il presidente uscente annuncia la sua rielezione, ma Mussavi e i suoi sostenitori contestano l'esito del voto per i brogli. Mussavi invita chi l'ha votato a festeggiare la vittoria. Internet permette alle notizie di diffondersi velocemente ed agli attivisti di organizzarsi dribblando la censura. 'Where is my vote?' diventa in pochi giorni uno slogan diffuso e ripetuto in ogni parte del mondo.

   Il verde e' il colore di quella campagna e in quel giorno, a Seul, sicuri di essere ripresi della telecamere, otto calciatori della squadra iraniana scendono in campo con polsini e fasce verdi. La protesta silenziosa dei calciatori iraniani ha subito una vasta risonanza in tutto il mondo, ma ce l'ha soprattutto a Teheran, dove le fasce verdi sono comparsi sugli schermi davanti ai quali milioni di connazionali seguivano con trepidazione l'esito dell'incontro.

   A guidare la protesta il capitano della nazionale, Mohammed Ali Karimi, che si presenta in campo a Seul con due polsini verdi, imitato da Massud Shohkjaei, il giocatore che ha segnato il gol dell'inutile pareggio iraniano. Fra il primo e il secondo tempo interviene la Federcalcio iraniana e nessuno, fra i giocatori, si ripresenta in campo con i simboli verdi. Ma il sasso nell'etere ormai è lanciato e le immagini di quella partita, modesta dal punto di vista tecnico, importantissima da quello simbolico, si sono ormai già diffuse in tutto il mondo come ennesimo grido di dolore del popolo iraniano e della sua richiesta di democrazia e di liberta'.

   Il calcio, in Iran, si è diffuso soprattutto negli anni Trenta, grazie allo Shah Reza Khan. Mentre nei villaggi chi indossava un paio di pantaloncini rischiava la lapidazione da parte dei mullah, lo Shah creò campi da calcio su terreni confiscati alle moschee. Reza Khan non era solo un grande appassionato di calcio, ma dette vita ad una campagna di modernizzazione del paese, potenziando le infrastrutture, mettendo al bando le leggi islamiche e modernizzando i costumi in chiave occidentale.

   Ed e' cosi' che, per la restaurazione islamica, a cominciare dagli ayatollah che presero il potere nel 1979, il calcio è un po' come il fumo negli occhi e non solo perché si tratta di un gioco che si pratica con troppa pelle scoperta, ma perche' è il germe più pericoloso di quella occidentalita' che hanno cercato di scardinare con tutte le loro forze. Se sono riusciti, in qualche modo, a mettere al bando cinema e musica pop, e' stato anche per loro impossibile eliminare dal cuore degli iraniani la passione per il calcio.

   Che spesso, soprattutto in occasione dei successi della nazionale, si è accompagnata con dimostrazioni e proteste politiche. Il caso più clamoroso è stato forse la qualificazione ai mondiali di Francia 1998, che l'Iran guadagnò con uno storico pareggio in trasferta con l'Australia. Per le strade di Teheran cominciarono i festeggiamenti: in mezzo a centinaia di migliaia di tifosi anche molte donne che rivendicavano il diritto di gioire con il resto del paese.

   Quando, tre giorni dopo quella partita, gli eroi del pallone ritornano nella capitale, accolti festosamente nello stadio principale dai tifosi, ai cancelli si accalcano cinquemila donne che gridano: ''Siamo anche noi parte di questa nazione, e abbiamo il diritto di festeggiare! Non siamo formiche!''. La polizia ne fa passare qualcuna, poi non riesce a contenere l'ondata e, per la prima volta, migliaia di donne troveranno spazio sugli spalti dello stadio accanto agli uomini.

   Ai mondiali francesi, ad ogni partita dell'Iran gli oppositori in esilio organizzarono manifestazioni ed esposero striscioni politici. A poco servì la repressione dei servizi segreti che provarono ad infiltrarsi fra i tifosi per lanciare cori contro Israele e contro gli Usa e che, in patria (quando venne trasmessa per la prima volta una partita di calcio dalla rivoluzione del 1979) censurò le immagini delle contestazioni che furono viste in tutto il mondo, proponendo scene di tifosi vestiti pesantemente, che certo erano poco credibili nel caldo giugno francese.

   Con ogni partita di calcio che passa sulle televisioni iraniane, entra nel paese un pezzetto di Occidente, un pezzetto di libertà. I festeggiamenti per le vittorie sportive si trasformano spesso in atti dimostrativi contro il regime di Ahmadinejad difficili da interpretare e da stroncare. E così, in faccia a una delle repressioni più feroci del mondo, speranza e libertà sono affidate anche al pallone.

Jurgen Sparwasser, una pallonata contro il muro


Ci sono degli episodi, nella storia del secondo novecento,  che tutti si ricordano dove si trovavano quando accaddero. Chi e' nato nella Germania Est spaccata dal muro ricorda alla perfezione dove si trovava il 22 giugno 1974, quando al Volksparkstadium di Amburgo Jurgen Sparwasser tirò una pallonata contro il muro di Berlino. La Germania Est vinse il suo primo e unico incontro contro la Germania Ovest che di lì a qualche giorno si sarebbe laureata campione del mondo.

Sulla sua tomba (per carità, lunga vita al caro Sparwasser...) probabilmente di date ne scriveranno tre: oltre a quella di nascita e di dipartita ci sarà anche quella di quel giorno, quando il muro di Berlino 13 anni dopo la sua costruzione, 15 anni prima della sua caduta, vibrerà sotto i colpi di una pallonata, calciata con potenza da quella mezz'ala magra e talentuosa che porto alla Ddr quello che è passato alla storia come il Bruder-duell, lo scontro fratricida. A Cesena c'é anche chi se lo ricorda per una scazzottata in campo con Oddi e Boranga nell'unica storica apparizione dei romagnoli in coppa Uefa, ma questa sarebbe tutta un'altra storia.

A quei tempi la Germania Ovest era uno squadrone. Quattro anni prima era arrivata in semifinale in Messico, sconfitta in quell'Italia-Germania 4-3 che ormai è quasi un luogo comune dello sport. Nel 1972 era stata campione europea e nel maggio del 1974 lo straordinario Bayern Monaco di Beckenbauer, Breitner e Muller aveva vinto la Coppa dei Campioni all'Heysel. Ma anche il calcio della Germania Est, fino ad allora quasi inesistente, stava cominciando ad affermarsi. Qualche giorno prima della vittoria del Bayern il Magdeburgo, la squadra di Sparwasser, aveva vinto la Coppa delle Coppe sbarazzandosi in finale del Milan di Rivera.

E la nazionale non era più composta solo da scarti dell'atletica e delle altre discipline, ma da giocatori che potevano dire la loro sul palcoscenico internazionale. Nel girone di qualificazione supera la Romania e si guadagna un visto per attraversare il muro e andarsi a giocare il mondiale in casa dei cugini dell'ovest.

Le palline colorate dell'urna dell'Uefa, a dicembre 1973, si divertono a dare uno scossone alla storia, mettendo di fronte le due Germanie nello stesso girone, insieme a Cile e Australia. Tutti se lo sarebbero evitato volentieri: due anni prima, nelle olimpiadi di Monaco c'era stata la strage di Settembre Nero e la banda Bader-Meinhof imperversava minacciando, di tanto in tanto, di imbottire d'esplosivo gli stadi del mondiale.

Come se non bastasse in quella primavera di trionfi del calcio teutonico i rapporti diplomatici fra Est e Ovest precipitano: il 6 maggio il cancelliere tedesco Willy Brandt, reduce dai successi della Ostpolitik che avevano segnato un riavvicinamento fra le due Germanie, si dimette in seguito alla scoperta di una rete spionistica della Stasi dentro le istituzioni della Germania Ovest. Un episodio che farà saltare, per ragioni diplomatiche anche la supercoppa europea che avrebbe dovuto veder di fronte Bayern e Magdeburgo.

Non era il caso, insomma, di aggiungere tensione anche con una partita di calcio. Ma è in quel clima, il 22 giugno, che si va in campo. Fra i 60mila spettatori ci sono 8.500 tedeschi dell'Est che hanno ricevuto un permesso giornaliero per andare in treno ad Amburgo. Le due squadre sono entrambe qualificate alla fase successiva, si deve solo decidere chi vincerà il girone. Nel primo tempo succede poco: la tensione e l'atmosfera paralizzano un po' tutti. Nella ripresa la Ddr comincia a crederci e al 78' succede l'impensabile: Sparwasser in area, salta Berti Vogts e scarica in rete incrociando di destro. Beckenbauer carica i suoi invitandoli alla riscossa dicendo che ''non è successo niente''. Ma come si sbagliava...

La sconfitta, paradossalmente, aiuta la Germania Ovest. Sparwasser e compagni finiscono in un girone semifinale con Brasile, Argentina e l'Olanda del calcio totale. Gli altri si beccano Polonia, Svezia e Jugoslavia e volano in finale, che vinceranno poi, proprio contro quell'Olanda di Cruyff che ha rivoluzionato per sempre il modo di giocare a pallone. Ma che nulla poté contro l'organizzato calcio tedesco.

Sparwasser torna in patria ed è acclamato come un eroe: al suo gol la goffa propaganda di Honecker attribuisce significati politici e mistici: all'eroe della lotta di classe, come ai compagni di squadra, va un premio di 2.500 marchi per il passaggio del turno.

Ma il colpo più forte al muro Sparwasser glielo darà 14 anni dopo: è il 1988 e lui insegna pedagogia dello sport all'Università di Magdeburgo, ma è in contrasto con le autorità locali che vorrebbero farlo diventare allenatore contro la sua volontà. Quando la moglie ottiene un visto per andare in occidente lui decide di seguirla. La Stasi si fa dribblare peggio di come avevano fatto Berti Vogts e la nazionale della Germania Ovest e Sparwasser salta il muro.

Proprio lui, l'eroe della rivincita operaia sul capitalismo, il simbolo del socialismo pallonaro, tradisce un sistema che già sta scricchiolando. I funzionari del partito si incazzano moltissimo e la fuga di quel signore di mezz'età chi si portava dietro una delle pagine più gloriose dello sport delle regime diventa un caso internazionale. Ma è questione di poco: dopo un anno tanti Sparwasser perforeranno il muro come una difesa di brocchi. La Germania diventerà una sola e di Bruder-Duell non ce ne saranno mai più. L'unico che c'e' stato l'ha vinto lui, Jurgen Sparwasser. E l'ha vinto due volte.

La Asi Superga, la piccola nazionale dell'integrazione

Provate a prendere dei bambini, tutti di razze, colori, nazionalità e lingue diverse e date loro un pallone. Fin dal primo rimbalzo, dal primo tiro, dal primo passaggio, parleranno una sola lingua, avranno una razza sola, non ci saranno più differenze fra loro se non quelle dettate dal campo, fra chi ha i piedi buoni e chi non ce li ha. E siccome a giocare a pallone si ridiventa bambini, che il calcio sia uno straordinario fenomeno di integrazione non lo scopriamo noi.

Purtroppo a far notizia sono gli altri e, giocoforza, si parla sempre di loro: di quelli scemotti che fanno degli urlacci quando vedono in campo un giocatore nero, o quelli che, quando sono in campo, si dimenticano di essere pagati milioni e di essere un esempio per milioni di ragazzini, si offendono e si sputano.

Ma il calcio, è sempre bene ricordarselo, non e' mica solo quello che si vede in televisione. Sparsi per il mondo ci sono campi polverosi, ci sono le strade, ci sono palloni fatti di stracci, a volte anche dei barattoli. C'è quello spirito, quella tensione, quello stupore che, nonostante tutto, qualunque cosa succeda, ci fa amare alla follia questo splendido gioco.

E così, sui campi di provincia, sorgono le squadre composte dagli immigrati: ci sono squadre marocchine, albanesi, slave, sudamericane, che nei campionati amatoriali provano a tenere alta la loro bandiera.

Se c'è qualcuno che mal li tollera è bene che si ricordi che fino a qualche decennio fa al loro posto c'eravamo noi. Qualche annetto fa, il mio giornale di allora mi commissionò una serie di pezzi sulla storia dell'emigrazione italiana. Incontrai un signore, Mario Maffucci, che mi raccontò una storia molto bella, che mi è sempre rimasta dentro.

Un po' di contesto: subito dopo la seconda guerra mondiale, un po' in tutta Italia il lavoro manca. In molte fabbriche vengono licenziati decine di migliaia di lavoratori. Molti dei quali solo perché in tasca hanno un giornale che non piace ai padroni o perché sono stati sentiti sussurrare la parola 'sciopero'. Sulla montagna pistoiese la questione è ancora più pesante: la Smi di Campo Tizzoro costruiva infatti munizioni ed a guerra finita il suo fabbisogno di manodopera cala drasticamente.

Qualcuno dei licenziati stringe i denti, si mette in proprio e contribuisce a creare la spina dorsale di quella famosa terza Italia, piccole e piccolissime aziende, dinamiche e coraggiose, sulle quali si fonderà, qualche anno dopo, il boom economico. Altri, invece, prendono la via dell'emigrazione. In quegli anni la meta preferita è la Svizzera, un po' perché vicina, un po' perché le fabbriche avevano bisogno di manodopera, possibilmente con un po' d'esperienza come quella italiana. La Smi sigla un accordo con la Von Roll di Gerlafingen (cantone di Soletta) e gli operai se ne vanno tutti (o quasi) lì.

Se si ascolta uno di quelli che ha vissuto quell'esperienza, ci si rende conto che le condizioni, l'atteggiamento dei locali, le umiliazioni, non erano poi così diverse a quelle che ci sono oggi in Italia. Ma uno dei veicoli d'integrazione dei giovani italiani in Svizzera fu, come adesso per molti africani e est europei, il gioco del calcio.

Nell'immediato dopoguerra vanto e orgoglio dell'Italia intera (anche quella di fede non granata) era il grande Torino di Valentino Mazzola, la cui leggenda si spezzò tragicamente con un drammatico incidente aereo avvenuto a Superga il 6 maggio 1949. La strage è ancora ben viva nell'immaginario collettivo nazionale, e all'epoca suscitò una vastissima ondata di commozione generale: anche, e forse ancora di più fra gli italiani all'estero.

 Fu così che gli operai italiani di Gerlafingen decisero di metter insieme una squadra di calcio e darle proprio il nome del luogo dove Loik, Gabetto e gli altri campioni erano scomparsi. Soldi però ce n'erano pochini. Con la proverbiale determinazione dell'emigrante non si persero d'animo, presero carta e penna e scrissero una lettera a Torino. La società granata inviò loro scarpe, magliette e quello che serviva per cominciare: era nata l'Associazione sportiva italiana Superga di Gerlafingen.

La squadra si iscrisse al campionato dilettantistico svizzero: ci giocavano i giovani operai della Von Roll, immigrati dall'Italia. La Superga era la squadra degli italiani in Svizzera. Difendere i suoi colori riempiva il petto d'orgoglio come giocare in nazionale e seguire le sue gesta era come trovare un punto d'aggregazione, per sentirsi fratelli lontani da casa.

La Superga fece la parte del leone in quei tornei, conquistando successi dopo successi. Ma quello che più contava era rappresentare un indiscutibile polo di identità per gli italiani a Gerlafingen.

La Superga esiste ancora. Fra le sue file militano ormai anche giocatori svizzeri, segno di un'integrazione ormai avvenuta, anche se scorrendo le pagine del suo sito internet, interamente in tedesco, si trovano ancora molti nomi dall'inequivocabile radice italica: giovani nati e cresciuti in Svizzera, poliglotti e cosmopoliti, ma che credono che le umiliazioni e i sacrifici dei loro nonni sia meglio ricordarli, per sempre e a tutti. Anche giocando a pallone.

Sarebbe bello che se ne ricordassero anche certi italiani, negli stadi e fuori.

Zvonimir Boban, le lacrime di un capo zingaro


Un vero capo zingaro non dovrebbe piangere. Mai.

Deve nascondere i suoi sentimenti, non dare a vedere alla sua gente la gioia o il dolore. Non che non gli sia concesso avere emozioni. Questo no. Non gli e' concesso di manifestarle. Di mostrare un segno, anche minimo di debolezza. L'ardore del guerriero deve sempre avere la prevalenza su tutto. Sempre. Tranne che in un caso: se a 20 anni inneschi da solo una guerra contro il mondo e a 30 la vinci. Allora le lacrime si possono perdonare.

Il capo zingaro di cui stiamo parlando aveva due dei piedi migliori da cui i campi da calcio si siano fatti calpestare. Quei piedi appartenevano a Zvonimir Boban. E la guerra stavolta non è una metafora sportiva, c'e' stata davvero e non ha guardato in faccia a nessuno. Per anni ha ammazzato migliaia di persone nella ex Jugoslavia, ha distrutto case, strade, citta'. Ha messo fratello contro fratello, ha risvegliato un odio mai sopito e un orgoglio pericolosamente annientato per molti anni.

Dopo un'infanzia da predestinato Boban a vent'anni è già il capitano della Dinamo Zagabria. Di più, è già un capo. Perché il pallone, i compagni e gli avversari obbediscono ai suoi ordini anche quando lui non li impartisce. Perché i tifosi della Dinamo Zagabria sanno che in questo ragazzo dagli occhi tristi possono trovare uno di loro. Un croato vero, che non indulge alle simpatie nazionaliste della curva, vi aderisce con convinzione.

Perché quel capitano di vent'anni ha un sogno che vuole realizzare più di ogni altra cosa. Tornare un giorno nella sua città, capitale della Croazia, a festeggiare un successo della sua nazionale. E' una ragione di vita o di morte. Il calcio c'entra relativamente: è solo l'arma di cui la natura l'ha dotato.

Maggio 1990. Fra qualche mese la nazionale jugoslava parteciperà ai campionati del mondo di calcio che si svolgono in Italia. Dopo l'importante qualificazione, la squadra di Osim è attesa ad un ruolo di non secondo piano alla rassegna continentale dall'altra parte dell’Adriatico. Zvone Boban, punta di diamante dell'Under 21, è anche un titolare fisso della nazionale balcanica. Ma quei mondiali che sarebbero stati i primi della sua carriera li vedrà solamente in televisione.

Il 13 maggio allo stadio Maksimir di Zagabria si gioca la 33esima e penultima giornata del campionato jugoslavo. Di fronte ci sono le due squadre più importanti del calcio balcanico. Da una parte c'è la Stella Rossa di Belgrado, la squadra che, bene o male, si identifica con il governo centrale. Dall'altra la Dinamo Zagabria. Quella partita però non si giocherà mai. Gli ultras nazionalisti della Dinamo Zagabria intonano cori contrari al regime e brandiscono i vessilli fascisti degli ustascia di Pavelic. Dall’altra parte i tifosi belgradesi cominciano a devastare lo stadio di Zagabria, distruggendo i tabelloni pubblicitari e le strutture dello stadio. Da una parte e dall’altra cominciano a volare i seggiolini e le pietre. I poliziotti cercano di ristabilire la calma, ma sono pochi e tutti serbi e cominciano a caricare gli ultras della Dinamo Zagabria.

Boban si sente investito delle sue responsabilità e colpisce con un calcione volante un poliziotto che stava manganellando un tifoso croato. Le immagini, riprese dalla televisione jugoslava, fanno il giro del mondo. In tarda serata diverse centinaia di 'Blue Boys', gli ultras della Dinamo Zagabria, si riuniscono nella piazza centrale della città cantando l'inno nazionale della Croazia e inneggiando a Franjo Tudjman, il capo del partito di opposizione Comunità Democratica Croata che ha vinto largamente le elezioni. Fra loro il capitano Zvone Boban.

La Fifa lo squalifica per nove mesi, ma l'Italia si innamora di quel ragazzino dai piedi d'oro e se lo compra. Dopo un anno di apprendistato al Bari approda al Milan: in un decennio, quel decennio in cui i suoi coetanei si scannano nel suo paese e ai quali Boban non smetterà di pensare nemmeno un minuto, vince quattro scudetti e una Champions League. In squadra con lui c'è Dejan Savicevic: ''se la natura non ci avesse dato i piedi buoni - disse nel 1994 - saremmo su fronti opposti a spararci''.

L'anno dopo, a Dayton, si firmano gli accordi per la pace. La Croazia può finalmente giocare come nazionale e Boban la guida ai mondiali francesi del 1998. In panchina ritrova Blazevic, lo stesso che gli aveva affidato la fascia di capitano da ragazzino. Dopo un girone eliminatorio positivo ma non esaltante la Croazia approda agli ottavi dove supera la Romania con un rigore di Suker.

Il 4 luglio la sfida nei quarti e' con la Germania: a fine primo tempo Jarni lascia partire una bordata che trafigge il portiere tedesco: 1-0 e un sogno che si comincia a materializzare. Berti Vogts, allenatore della Germania, tenta il tutto per tutto: schiera in campo 4 punte, ma la Croazia, con la sapiente regia di Zvone supportato ai fianchi da Jarni e Stanic, prima del triplice fischio finale colpisce altre due volte, con Vlaovic e con Suker. Per la Germania è la disfatta, per la Croazia il trionfo: la semifinale, il tetto del mondo, per una neonata nazione di appena 4 milioni di abitanti.

In quel giorno di luglio a Lione si verifica così una di quelle strane coincidenze del destino per cui un capo zingaro ha il diritto di piangere. ''A pensarci bene non è il 3-0 sulla Germania, è una cosa ancora diversa - ha cercato di spiegare al termine della partita, in lacrime, ai giornalisti italiani - voi non potete capire che significato abbia questa vittoria per noi. E' molto di più di una partita. E’ una specie di liberazione, di definitiva conquista della libertà. Io lo so cosa significa. Ma lo sapete voi che quando giocavo non potevo neppure parlare croato, perché era proibito, era...era...è troppo bello'', e giù un sospirone solcato di lacrime.

Per un attimo perde la fermezza di quel suo sguardo chiaro e distoglie gli occhi. Non sa dire cosa gli si agita nel cuore. E per la prima volta si commuove per una partita di calcio, lui che ne ha fatte centinaia. Poi perde i sensi: mentre i suoi compagni festeggiano lui va giu', come una pera cotta. In semifinale la Croazia perde con la Francia, poi campione del mondo, quindi supera l'Olanda nella finalina e si piazza terza: tutto il mondo conosce e ammira la Croazia.

In quel giorno di luglio, a Lione, la Germania voleva la semifinale. La Croazia voleva uscire dagli spogliatoi con una maglietta bianca con su scritto 'Proud to be croat'. E queste cose di solito fanno la differenza.

Il grande Obdulio Varela, fece piangere un paese


Non credo che mai così tanta gente tutta insieme abbia pianto per una partita di calcio. Forse è ingiusto parlare di tragedia visto che non è morto nessuno (a parte qualche decina di suicidi riconducibili all'episodio) ma quello che è successo il 16 luglio 1950 davanti a 180mila spettatori rimane una delle pagine più cariche di tristezza della storia del calcio di tutti i tempi.

Il Brasile, una squadra perfetta, una macchina da gol, era arrivato in finale con un ruolino impressionante: 22 reti fatte in cinque partite, avversari strapazzati. Davanti aveva l'Uruguay, squadra solida che aveva faticato e lottato contro avversari ben più modesti. La finale, in quel Maracanà appena inaugurato sembrava una formalità: il Brasile avrebbe spazzato via i modesti avversari rioplatensi e tutto il paese si sarebbe lasciato andare ad una festa incredibile che sarebbe durata per settimane, il Carnevale più grande del mondo.

Per la verità non si trattava esattamente di una finale come la intendiamo noi, ma dell'ultima partita di un girone all'italiana da quattro squadre. Il Brasile aveva stravinto le prime due, l'Uruguay aveva ottenuto un successo striminzito e un pareggio. Ai padroni di casa sarebbe bastato un pari, ma in quel contesto non aveva senso accontentarsi: l'ultima partita sarebbe dovuta essere una mera formalità. I dirigenti della nazionale uruguaya chiesero ai loro una sconfitta onorevole, limitare i danni.

In quella nazionale c'erano Oscar Miguez, Ghiggia e 'el pepe' Schiaffino. Ma chi si oppose a quell'atteggiamento rinunciatario fu il vero protagonista di quella partita: il grande Obdulio Varela. Aveva 33 anni e la sua esperienza internazionale in quella squadra di giovani promettenti lo aveva fatto diventare il capitano. Un ragazzone tagliato con l'accetta, come ce lo racconta il mai troppo celebrato Osvaldo Soriano, che non aveva mai dato la mano ad un arbitro in vita sua perché non voleva che la gente sugli spalti pensasse che leccava il culo a chi comandava, che non aveva mai voluto posare in una foto ufficiale, perché lui era pagato per giocare e non per fare il fotomodello.

Quando entrò in campo decise di non guardare in alto: sugli spalti 180mila persone o forse più avevano già cominciato la festa, ma la partita si giocava lì sotto. Nel primo tempo il Brasile mise alle corde l'Uruguay che si difese con ordine e cercò anche di colpire in contropiede. Ma dopo due minuti della ripresa Friaca porto in vantaggio i padroni di casa. Al Maracana cominciò la festa, partirono i fuochi d'artificio per festeggiare il primo titolo mondiale di una nazione che viveva di calcio.

Fra quelle quasi 200mila persone Obdulio fu l'unico a capire cosa stava succedendo (''loro forse sapevano tutto del pallone, ma noi sapevamo tutto del calcio''). Raccolse il pallone in fondo alla rete e si avviò lentissimamente verso il centrocampo. Fra i fischi del pubblico, cominciò una lenta e pretestuosa polemica con l'arbitro, si fece mandare in campo addirittura un interprete. Raffreddo' gli animi, placo' il pubblico, innervosì quella feroce macchina da gol che non vedeva l'ora di ripartire.

E dopo venti minuti Ghiggia scattò sulla fascia, saltò due avversari e servì Schiaffino che pareggiò: il colosso, ora, aveva paura. Un pareggio sarebbe bastato al Brasile, ma sugli spalti del Maracanà cominciò a serpeggiare un brutto presentimento. E così, a dieci minuti dalla fine, fu ancora Ghiggia a battere il portiere brasiliano. Il Maracanà si ammantò di un silenzio non vero. Si sentivano solo le urla dei giocatori in campo che cercavano di pareggiare, senza riuscirci. Il gigante era lì, steso, colpito a morte da un pulcino. Tutto il paese era in una disperazione totale.

Ciò che avvenne quella sera è ammantato dalla leggenda. Obdulio e il suo massaggiatore andarono ad ubriacarsi nei bar dei quartieri malfamati di Rio. Incontrò un sacco di gente che piangeva. Lo riconobbero, si fece offrire da bere. Provò a consolare quella infinita tristezza. ''Obdulio ci hai fottuti'', gli disse un tizio grande e grosso con il quale passò la notte a sbevazzare da un bar all'altro.

''Mi sono accorto - racconterà a Soriano - che ero amareggiato quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel Carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza? In Uruguay la gente doveva essere felice, ma io ero lì, a Rio de Janeiro, in mezzo a tutte quelle persone sconsolate. Se adesso dovessi giocare di nuovo quella finale mi segnerei un gol contro, sissignore''.

Obdulio Varela è morto povero, solo e malato a Montevideo nel 1996. La gente lo adorava, ma la sua federazione non si è mai ricordata di lui. Negli ultimi anni della sua vita ha fatto vari lavori, ha fatto il parcheggiatore, è stato impegnato a tenere alla larga curiosi e giornalisti. Dall'Olimpo del pallone dove certo si trova, non credo che il grande Obdulio voglia essere ricordato come capitano di quella nazionale che compì quell'incredibile impresa. Piuttosto come un uomo nato poverissimo, cresciuto per strada e che ha vissuto sempre con straordinaria dignità.

''Sono molto pentito di aver giocato. Se dovessi ricominciare la mia vita da capo, il campo di gioco non lo degnerei neanche di uno sguardo. No, il calcio è tutto uno schifo. Quando hanno provato a corrompermi non mi sono né arrabbiato, né li ho buttati fuori a calci, né li ho denunciati. Ho detto di no, che si cercassero uno con meno orgoglio di me. Io mi sono sempre basato su quella filosofia che ho imparato in strada: bisogna vivere, costi quel che costi, vivere, e in cambio bisogna lasciar vivrere. Bisogna guadagnarsi la vita, ma non è giusto infangare gli altri. Per questo io non ritornerei in un campo da gioco neanche se mi offrissero milioni. Io ci ho sofferto molto e non lo sopporto. Non vale la pena impegnarsi la vita in una causa che è sudicia e corrotta. Chi se ne sente capace lo faccia pure. Un bel giorno dovrà renderne conto''.

Jorge Carrascosa, il lupo che disse no ai colonnelli

Chiudete gli occhi e immaginate: alzare la coppa del mondo, con la maglia della propria nazionale, davanti al proprio pubblico. Chi da bambino non ha mai fatto un sogno così? Un sogno, appunto. Si sarebbe disposti a tutto per realizzarlo. A tutto, forse, o quasi. Perché c'é anche chi, a quel sogno, ha deciso di rinunciare, perché non era giusto e perché non ne valeva la pena.

La storia di Jorge Carrascosa è una delle più belle che ci ha consegnato la memoria del pallone del ventesimo secolo eppure è una delle più dimenticate: troppo grande, troppo incomprensibile fu il suo gesto, in un mare di indifferenza e di ipocrisia.

Terzino sinistro dell'Argentina degli anni Settanta, buono, ma non un fuoriclasse. Grande temperamento, però, quello del 'Lobo', il Lupo, Carrascosa, che gli aveva fatto guadagnare i gradi di capitano della Nazionale alla vigilia di quel campionato del mondo del 1978 sul quale Videla e i colonnelli che tenevano il paese sotto una delle dittature più spaventose del Novecento avevano investito tutto per diffondere all'estero l'immagine di un'Argentina Felix.

La cosa, almeno fino a un certo punto, funzionò. Un paese intero, provato da una dittatura sanguinaria, per un mese si fermò. Non si fermarono (se non per quelle due ore in cui scendevano in campo Mario Kempes, Bertoni e le altre glorie nazionali) le torture negli scantinati di Buenos Aires, le feroci cacce al nemico orchestrate dalla tripla A, l'Alleanza anticomunista argentina, le persecuzioni degli oppositori. Non si fermarono quei voli della morte che hanno gettato, vive, nell'oceano, decine di migliaia di persone, sopratutto ragazzi, come quelli con la maglia albiceleste che facevano sognare un popolo. Non si fermarono il pianto e la rabbia delle madri di Plaza de Mayo che chiedevano verità e giustizia per i loro figli desaparecidos, scomparsi nel nulla.

E non si fermò il grande tourbillon del calcio. Videla e i suoi soci fecero di tutto per ottenere l'organizzazione del mondiale e ci riuscirono. E fecero di tutto per portare all'Argentina quel titolo mondiale che non era mai arrivato. La squadra era ricca di talenti: oltre a Kempes e a Bertoni c'era un altro grande attaccante come Luque, c'era il bizzarro Ardiles, c'era il monumentale libero Daniel Passarella. Ma non c'era lui, il Lobo, Jorge Carrascosa. Non certo il più talentuoso di quella nidiata dove emetteva i primi vagiti anche Diego Maradona (non convocato però per il mondiale), ma di sicuro il più carismatico. L'anima di quella squadra.

El lobo disse di no. Volto' le spalle ai suoi colonnelli, gettò a terra la sua fascia perché non voleva sporcarla di sangue. Non disse una parola, non la dirà mai più. A trent'anni non ancora fatti lasciò la nazionale, un anno dopo il calcio. Non avrebbe avuto senso alzare una coppa per quella gente, che teneva l'Argentina piegata dal terrore. Sarebbe stata una coppa sporca. Ma la storia, anche quella del calcio, la scrivono i vincitori e dalle mani di Videla, che nel giorno della finale aveva accanto il gran maestro della P2 Licio Gelli, quella coppa la riceverà Daniel Passarella.

Bella squadra, quell'Argentina. Ma che per vincere fece davvero di tutto. Come quella che è passata alla storia come la 'Marmelada Peruana', la vittoria per 6-0 sul Perù che le ha consentito di accedere alla finale (serviva infatti una vittoria con molti gol di scarto per superare il Brasile nella differenza reti). Il Perù schierò in porta Ramon Quiroga, 'el loco', argentino appena naturalizzato peruviano, che incassoò sei gol da comiche e anni dopo ammetterà la combine. Prima di quella partita lo spogliatoio peruviano ricevette una visita di Videla con il Segretario di Stato americano Henry Kissinger. Il governo argentino aveva appena regalato un milione di tonnellate di grano al Perù, e venne aperta una linea di credito di 50 milioni di dollari. E sulla corruzione della squadra peruviana ci fu anche un coinvolgimento, mai chiarito, del narcotraffico colombiano.

La finale contro l'Olanda del calcio totale (orfana di Cruyff, rimasto a casa per un altro mistero mai davvero chiarito), arbitrata non senza polemiche dall'italiano Guido Gonella, vide l'Argentina vincere 3-1 dopo i supplementari. Si racconta che Menotti, l'allenatore, chiese ai suoi di non guardare i militari, ma la gente in estasi assiepata sugli spalti: ''non vinciamo per quei figli di puttana, vinciamo per alleviare il dolore del nostro popolo''.

In quei 120 minuti una nazione si fermò. Accanto al Monumental di Buenos Aires dove si giocava la gara del secolo c'é la Escuela de Mecanica de la Armada, uno dei luoghi di detenzione più sanguinario, e in quei 120 minuti si fermarono anche le torture. Li', come nel Garage Olimpo. Là dentro, in mezzo ad un paese in delirio, c'erano migliaia di prigionieri che si stavano facendo lentamente ammazzare. Avrebbero voluto essere là fuori, ad ubriacarsi e far festa con gli amici per il primo titolo mondiale dell'Argentina. Ma non avevano vinto loro, avevano vinto quelli che li stavano ammazzando. El Lobo Jorge Carrascosa dette un calcio ai suoi sogni di bambino e non volle essere uno di quelli.

L'irrefrenabile tentazione del copia/incolla

Condividete, diffondete, copiate, incollate.

Su Facebook è facile abboccare all'irrefrenabile tentazione del copia/incolla che fa scempio e abuso della credulità popolare. In questi anni ne sono girate di tutti i colori: notizie false, allarmistiche, razziste, fuorvianti. C'è chi ci sorride, c'è chi prova a combatterle, con scarsissimi risultati. Il guaio, però, è che in molti ci credono.

Fra le bufale più innocue ci sono quelle sulla privacy: messaggi che chiedono di fare una serie di operazioni sul profilo in nome di una maggiore riservatezza, ma che non hanno nessun effetto. La versione di novembre, aggiornata alla nuova brutta e disfunzionale organizzazione feisbucchiana, chiede agli utenti di deselezionare foto e giochi. L'effetto dell'operazione descritta in realtà, consente solo all'utente che lo fa di non vedere più le notifiche sui giochi e sulle foto dell'utente che si è selezionato. Tutto qua.

Gli effetti però a volte sono comici.

Come segnala il blog La Batusa stamattina ci è cascato il sindaco di Piacenza, Paolo Dosi


Il sindaco di Piacenza, per quel poco che lo conosciamo, è una persona squisita, usa sempre toni pacati, è di una gentilezza e cortesia rare. Molti suoi concittadini quindi, stamattina, nel leggere una cosa di questo tipo si sono un po' allarmati: se una persona così mite - hanno pensato in molti sulle rive del grande fiume - si scaglia in maniera così decisa contro qualcosa, deve essere qualcosa di grave.

E invece no, amici piacentini, state tranquilli, non è niente di grave.

Il vostro sindaco è stato contagiato dall'irrefrenabile tentazione del copia/incolla, ma passerà.

Il sindaco però è un lavoro importantissimo e delicato, i social network sono uno straordinario strumento per comunicare con i propri concittadini. Minacciare di cancellarli non è propriamente una geniale strategia di comunicazione politica. Un po' d'attenzione in più non guasterebbe.

Arpad Weisz, il profeta del calcio europeo morto ad Auschwitz

   Era l'allenatore più vincente di tutti gli anni Trenta: un po' come Mourinho e Capello messi insieme, però molto più giovane. Un mito indiscusso del pallone, una gloria che aveva inventato un modo di giocare forse non bellissimo, ma estremamente concreto e vincente. La follia nazista non ne ebbe pietà: dopo tre scudetti in Italia, affermazioni europee dello stesso valore che oggi daremmo ad una Champions League, Arpad Weisz, genio del calcio, ebreo ungherese, trovò la morte, con la sua famiglia, ad Auschwitz, condividendo la stessa sorte di altri sei milioni di persone.

   La cosa che forse più rattrista di tutta questa vicenda è stata forse però l'oblio in cui è caduta per decenni: ci ha pensato Matteo Marani con 'Dallo scudetto ad Auschwitz', un gran bel libro, a riportare alla luce questa vicenda ed a costringere società sportive ed istituzioni pubbliche a ricordare in maniera doverosa questo personaggio, anche per omaggiare il tributo pagato dal mondo dello sport alle persecuzioni razziali.

    Weisz, chiuse presto la propria carriera da giocatore, per accomodarsi in panchina: a trent'anni allenava l'Alessandria, da dove passo' all'Ambrosiana Inter dove, nella stagione 1929-30 arrivò il suo primo titolo italiano. Grande conoscitore del calcio, autore di un celeberrimo manuale, Arpad Weisz si rivelò anche un formidabile talent scout: fu lui, infatti, a scoprire ed a lanciare Giuseppe Meazza.

   Ma l'apice della sua carriera Weisz la toccò a Bologna dove arrivò nel 1935 per dare vita ad un biennio nel quale la squadra rossoblù sarà la più vincente d'Europa.

   Bologna è stata forse una delle città dove la storia del calcio e quella del regime fascista si sono intrecciate. Merito anche di Leandro Arpinati, ras cittadino fino al 1934, nonché uomo del regime per il mondo dello sport: Arpinati fu infatti presidente della Figc e del Coni e orchestratore dell'assegnazione e dell'organizzazione del campionato del mondo del 1934 all'Italia. A lui si deve anche la discussa costruzione dello stadio di Bologna, il 'Littoriale', che ancora oggi, intitolato a Renato Dall'Ara, ospita le partite casalinghe del Bologna.

   Fu proprio Renato Dall'Ara, imprenditore reggiano che dette il via ad un trentennio di straordinari successi per i rossoblu', ad ingaggiare Arpad Weisz.

   Nonostante l'approvazione delle leggi razziali fosse ancora piuttosto lontana, il regime fascista non solo non vedeva di buon occhio l'impiego di calciatori stranieri nei tornei italiani, ma era arrivato perfino a metterli al bando, salvo escogitare una fantasiosa e fortunata eccezione, quella degli oriundi, che permetteva ai sudamericani con ascendenze italiane di partecipare al campionato italiano.

   La norma, vista nella prospettiva di ciò che sarebbe successo dopo, appare più nazionalista che xenofoba: si sosteneva infatti che sarebbe stato impossibile per giocatori 'antinazionali' competere in qualsiasi disciplina dello sport italiano.

   Ad alcuni stranieri, tuttavia, venne concesso di lavorare in Italia: il commissario straordinario del Coni, Augusto Turati, disapprovò l'ingaggio di tecnici stranieri e impose alle società che volessero far sedere in panchina un allenatore non italiano, di ottenere una specifica autorizzazione. Fra questi, appunto, Arpad Weisz.

   Appena arrivato a Bologna porterà subito i rossoblù al successo con due scudetti consecutivi, nel 1935-36 e nel 1936-37. Era un Bologna che segnava poco, quello di Weisz, ma che aveva una solidità ed una concretezza incredibili. Con i gol di Schiavio, ormai una leggenda dopo il titolo di campione del mondo, e con l'apporto di Biavati, Andreolo e Reguzzoni, diventerà nota e passerà alla storia come la 'squadra che tremare il mondo fa'.

   Il successo più grande è però quello riportato al Torneo dell'Esposizione di Parigi nel 1937. Allora non esisteva la Coppa dei Campioni e la sfida fra le più importanti squadre europee organizzata in Francia, poteva essere considerata come un vero campionato europeo per club: tanto che vi prese parte anche il Chelsea, campione d'Ingilterra, mentre la nazionale, in quel periodo, rifiutava sdegnosamente la partecipazione ai campionati del mondo ritenendosi troppo superiore. Il Bologna si sbarazzò senza troppa difficoltà dei francesi del Sochaux e dei cechi dello Slavia Praga e trovò in finale proprio i maestri del Chelsea.

   Il pronostico sembra scontato, ma il Bologna ha Weisz in panchina e sull'ala sinistra Carlo Reguzzoni, il miglior mancino d'Europa, giocatore ignorato dalla nazionale che prima che i maestri se ne rendessero conto aveva già fatto tre gol (e un altro lo aveva segnato Busoni). Alla fine sarà 4-1 ed un trionfo che consacra il Bologna come miglior squadra d'Europa e Weisz come profeta del calcio.

   Nel frattempo, però, in Italia si approvano le leggi razziali. All'inizio del campionato del 1938 i giornali sportivi bolognesi annunciano che il Bologna, senza clamori e senza spiegazioni, ha cambiato allenatore: via il plurivincitore Weisz, ritorna Fellsner, austriaco che aveva già allenato i rossoblù.

   Arpad Weisz, ebreo e straniero, è costretto a lasciare l’Italia con la la moglie Elena e i due figli Roberto e Clara. Dopo una breve sosta a Parigi, i Weisz si stabiliscono in Olanda, a Dordrecht, dove Arpad allena la locale squadra di calcio. La famiglia Weisz viene però arrestata nel 1942, portata nel campo di raccolta di Westerbork e da lì nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Elena, Roberto e Clara muoiono subito, nelle camere a gas. Weisz sopravvive fino al 31 gennaio 1944.

   Bologna, l'Italia, il mondo del calcio, se ne sono dimenticati per sessant'anni: come se due scudetti e una specie di Champions League non contassero nulla, come se una delle più grandi tragedie della storia dell'umanità non avesse toccato il mondo del calcio. Oggi, grazie anche al libro di Marani, una targa nello stadio di Bologna intitolato al presidente che lo aveva assunto ma che non fece (forse non poté) fare niente per salvarlo, ricordano il genio del calcio ucciso dall'umana bestialità.